Talvolta il miglior modo per visitare la sala di un museo è quello di individuare a spanne il suo centro e lasciare che gli occhi si smarriscano. Di tanto in tanto fare un passo avanti o indietro, e spostarsi di lato finché non saremo attratti, quasi alla sprovvista, dal respiro unico delle opere. In quel caso è come se si origliassero i reperti bisbigliare tra loro. Altre volte, invece, la miglior esperienza per il visitatore di musei è quella della passeggiata. Ed è così, come camminando tra i ruderi di una città da cui si guarda alla civiltà perduta, che si consiglia di visitare la nuova sala che il Museo egizio di Torino ha appena inaugurato.

“Alla ricerca della vita” ospita la collezione di 91 mummie, sei delle quali esposte in rappresentanza di un intero arco vitale, dalla nascita all’età adulta, e di un periodo storico di due millenni.

Cosa significa nell’antico Egitto essere un bambino o una donna di cinquant’anni, un visir con l’artrite o una ragazzina in una città invasa da mercenari, arcieri nubiani e ufficiali militari? In questa nuova sala del museo sono raccolte sei vite sospese su un ponte di corda che separa l’antico Egitto dai giorni nostri. Un itinerario lungo e pieno d’imprevisti che ci avvicina di molto all’inizio di tutto e con il quale i curatori (il direttore Christian Greco, Paolo Del Vesco, Federica Facchetti, Susanne Töpfer) donano all’umanità un’eredità finora inedita.

L’antichità che parla

L’estinzione fa parte delle regole del gioco, degli esseri viventi e delle civiltà. Questa sala è una camera delle meraviglie in cui ciascuna delle mummie conservate ed esposte chiosa una cultura estinta in lontananza. Una sala che come tutta la collezione del museo – dalle prime antichità volute dai Savoia nel XVII secolo all’acquisizione di Drovetti del 1824 e alle campagne di scavo di Ernesto Schiaparelli – ci appare dominata da un orologio le cui lancette non scandiscono i secondi, i minuti o le ore ma i secoli, i millenni.

Queste sei vite ci consentono di conoscere l’antico Egitto ad altezza d’uomo: le pratiche mediche e magiche per assistere la donna incinta; i costi per crescere un bambino; la routine lavorativa e famigliare; l’enorme potere del visir che si occupava della gestione del palazzo regale. Nei musei ci sono gallerie che possono essere luoghi di ritrovo e all’occorrenza diventare spazi per dibattere. Non è così, invece, la sala “Alla ricerca della vita”. Qui il visitatore diventa ancora più muto. Certo che «l’antico Egitto ha sempre fornito degli spunti interessanti all’incubo”, come diceva l’egittologo di un fumetto di Dylan Dog, ma in questa sala le mummie non fanno paura. Nella risonanza dei millenni lontani, una rifrazione giunge fino a noi tramite questi sei abbozzi di ritratti. È la storia degli antichi, decifrata nella loro realtà quotidiana. E non soltanto la storia dei faraoni, ma la storia delle donne e degli uomini comuni dell’antico Egitto.

Sbendaggi virtuali

Il museo della Comunicazione dell’Aia conserva in un baule 2.600 lettere che arrivarono in città tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo e, che, per una ragione o per un’altra, non furono mai recapitate ai loro destinatari. Qualche mese fa, grazie a un gruppo di ricerca sovrainteso dal Mit di Boston, si è riusciti a decifrare il contenuto di una lettera inviata il 31 luglio del 1697 e ripiegata con una complessa tecnica di crittografia. Servendosi di uno scanner sviluppato originariamente per analizzare i denti, che ha rivelando i metalli presenti nell’inchiostro, i ricercatori hanno potuto leggere il contenuto della lettera. Senza aprire la busta. A differenza di quanto non capitasse in passato, da qualche anno anche gli egittologi, per studiare le mummie, non hanno più bisogno di srotolare le loro bende. Ora gli sbendaggi sono virtuali, si avvalgono dell’uso della Tac, e permettono di scoprire dettagli sconosciuti.

Sotto teli di lino impreziositi da lunghe frange, sotto le loro maschere funerarie di bende e gesso, sotto il sottile strato di intonaco dipinto, si celano queste sei storie che non credevamo di poter conoscere. Un feto avvolto in tessuti quasi trasparenti risalente tra il 1550 e il 1450 a.C.; un bambino di quattro o cinque anni di nome Pasherikhnum; una tredicenne nel 2.100 a.C., chiamata Meres, che sarebbe potuta diventare una balia o una governante, una truccatrice o una tessitrice, una produttrice di birra o una sacerdotessa, una musicista o una danzatrice; una ragazza di 16 anni della Tebe del secondo secolo avanti Cristo, proveniente da una famiglia agiata; il visir Imhotep, morto a quarant’anni, alto funzionario della corte del Faraone Thutmosi I; e una donna di 50 anni dai capelli bianchi e con i consueti acciacchi dell’età (tra i termini con cui gli egizi definivano una persona anziana, due facevano riferimento all’ingobbamento sul bastone, e un altro era l’onomatopeico kehkeh, il cui significato è “tosse”, un tormento comune negli anziani anche dopo l’epoca tolemaica).

Continuare a vivere

La decifrazione della scrittura geroglifica nel 1822 a opera di Jean-François Champollion ha permesso di infondere una voce comprensibile ai posteri a tutte le iscrizioni, a ogni reperto, a ciascun papiro. La mummia non rappresenta soltanto la persona defunta, non ne è il cadavere tumulato e poi dissotterrato; la mummia è l’anima, è lo spirito, è l’ombra, è il corpo, è il nome. E al visitatore, grazie al nobile incantesimo del museo, non sembrerà di camminare tra i loro sepolcri, ma di sgranare un collier di vite intrecciate l’una a fianco all’altra, di passeggiare in una galleria di ritratti in un’ombra che sopravvive al buio.

È come se l’incanto di questa nuova sala del Museo egizio giungesse da un sipario mai completamente aperto, in parte raccolto in pieghe morbide di velluto e in parte con quel mantello ancora addosso. In questa sala ispirata, cioè abitata da spiriti che non si vedrebbero meglio se invece che al buio li incontrassimo in piena luce, si riescono a immaginare le pareti, i piedistalli delle statue, le steli, gli altari e i tavoli d’offerta che in alcuni di questi casi probabilmente ornavano le tombe. Quando cala il sipario, il Museo egizio esiste ancora di più.

La scienza museale è una tecnica misteriosa, altrimenti come si spiegherebbe che dietro alle teche vetrate questi reperti esercitino un fascino di cui altrimenti sarebbero privi? Vivevano in capanne di fango, gli egizi, si facevano seppellire in palazzi di pietra e adesso quel mondo simbolico che ha preso il posto dei loro corpi riposa preziosamente dietro teche di vetro.

«Nulla di ciò che si è verificato va perduto per la storia», scriveva Walter Benjamin. Un essere umano vive se il suo nome è menzionato, recitava un detto egizio. Nell’Epoca Tarda dipingevano, a volte, all’interno del coperchio del sarcofago la divinità materna, Nut, nell’atto di distendersi sul morto per racchiuderlo tra le sue braccia. Questi sei esseri umani, il bambino e il visir, finché verrà menzionato il loro nome, finché verranno raccontate le loro storie, continueranno forse a vivere in quell’abbraccio.

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