Olivier de Serres, agronomo francese del XVII secolo, ha analizzato la preparazione delle conserve, in particolare delle confetture, evidenziando i rischi legati alla conservazione dei cibi e le precauzioni necessarie. Nonostante le sue cautele, le confetture dell'epoca erano spesso pericolose, un problema che si risolverà solo con le scoperte scientifiche successive.
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Dal punto di vista gastronomico le feste di Natale e di fine anno sono soprattutto il trionfo dei dolci, tra questi anche marmellate e confetture. Nella storia di queste particolari preparazioni, uno dei personaggi principali fu sicuramente l’agronomo francese Olivier de Serres, vissuto nel periodo turbolento delle guerre di religione a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. La sua opera più importante venne pubblicata a Parigi nel 1600: Le théâtre d'agriculture et mesnage des champs. È proprio in questo testo che l’autore affrontò il curioso tema delle conserve e in particolare quello delle confetture. Come era nel suo stile, l’approccio era estremamente analitico; le considerazioni che vengono avanzate sono il frutto di osservazioni e sperimentazioni ripetute nel tempo. Questo testo, quindi, ci fornisce un quadro estremamente preciso delle convinzioni e delle paure relative ai cibi conservati all’inizio del XVII secolo.
Nella sostanza, de Serres compila una rassegna delle metodologie più sicure per allungare la vita dei cibi in una logica di economia domestica e di buona gestione delle risorse alimentari. Per questo non ci parla di tecniche classiche come l’affumicatura o l’essiccazione, che difficilmente potevano essere utilizzate da una famiglia, perché necessitavano di strutture decisamente grandi e complesse. Quindi la sua attenzione è tutta concentrata sulle conserve sotto sale, sotto aceto e sott’olio (o altri grassi).
In questa ottica, la confettura, vale a dire la conservazione attraverso lo zucchero, rappresentava una tipologia del tutto particolare che meritava un capitolo a parte. Poiché tutti i metodi di conservazione, compresa la confettura, finiscono per modificare il gusto e l’aspetto dei cibi, c’era qualcosa di innaturale e quindi di pericoloso per definizione. Di conseguenza, la regola generale era quella di fare in modo che i cambiamenti al termine del processo fossero i più limitati possibile. Trasformare un frutto in una confettura, significava allontanare quel frutto dalla sua “natura primitiva”, ma non potendo conservarne il sapore, bisognava almeno salvaguardarne l’aspetto esteriore e il colore.
Cautele filosofiche
Queste cautele di carattere filosofico, se così possiamo dire, si aggiungevano a quelle molto più concrete sulla durata dei cibi dopo essere stati messi sott’olio o sotto aceto oppure dopo essere stati trasformati in confetture. Da questo punto di vista, il pericolo era serio, non si trattava solo di contravvenire alle regole della natura, ma proprio di provocare danni e intossicazioni in chi avrebbe consumato quei cibi conservati. E gli incidenti più o meno gravi erano all’ordine del giorno. Le cronache inglesi e francesi segnalavano numerosi casi di avvelenamenti, così venivano registrati all’epoca, a seguito del consumo di marmellate o conserve.
I sistemi per prevenire questi avvelenamenti, ma oggi li chiameremmo intossicazioni, erano molto empirici e di fatto si limitavano ad allungare la cottura, laddove era prevista, o ad aumentare la quantità della sostanza che doveva conservare il cibo, fosse essa olio, aceto o, appunto, lo zucchero. Il risultato, ovviamente, era che la frutta in confettura finiva per perdere qualsiasi sapore ed essere semplicemente dolce, probabilmente troppo dolce e sicuramente troppo costosa, visto il prezzo dello zucchero prima dell’industrializzazione.
Olivier de Serres consigliava un sistema ancora più cautelativo: mangiare in fretta il prodotto, al massimo due settimane dopo aver terminato tutto il procedimento. Nei casi più virtuosi si poteva arrivare alle tre settimane, ma a rischio e pericolo di quei temerari che volevano fare questa esperienza. La controindicazione era che in questo modo tutto lo sforzo e la spesa fatti per preparare la confettura generavano un vantaggio davvero limitato. Se lo scopo era quello di allungare la vita dei prodotti freschi, la differenza tra una mela consumata al naturale nelle stesse condizioni in cui si trovava appena tolta dall’albero e una confettura di mele, alla fin fine, si riduceva a qualche giorno di vita in più e forse nemmeno quello.
Ma l’agronomo francese si poneva anche un problema tecnico del tutto originale, che in qualche modo anticipa alcune ossessioni dei giorni nostri; vale a dire la preoccupazione sugli arnesi utilizzati in cucina. Secondo de Serres quello che aveva reso le confetture così pericolose fino a quel momento, infatti, era stato l’utilizzo di strumenti inadeguati durante la preparazione, in particolare pentole di ferro o di terracotta nel corso della cottura. De Serres sosteneva che l’unico metallo sicuro per cuocere la frutta e in generale per le ricette che prevedevano la cottura nello sciroppo di zucchero fosse il rame. La cosa ancora più curiosa è che per l’autore il rame era del tutto inadeguato per cuocere i cibi salati o acidi. Quindi l’accoppiata sicura era solo quella tra zucchero e rame. Il motivo di questa scelta non è del tutto chiaro, ma probabilmente si basava su consolidate convinzioni derivate dall’alchimia
Come si sa, bisognerà attendere prima l’invenzione di Nicolas Appert nel 1810 e soprattutto le scoperte di Louis Pasteur intorno alla metà del XIX secolo per poter realizzare confetture e conserve veramente sicure. Ma questo il coraggioso de Serres non lo potrà mai sapere. Perché per circa duecento anni saranno proprio le strane convinzioni dell’agronomo francese e quel misto di scienza e alchimia a guidare cuochi e massaie nella preparazione di marmellate e confetture… con qualche rischio al momento della consumazione…
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