L’autorità dello Zingarelli attesta che il termine «vaticanista» come studioso o esperto del Vaticano risale al 1886, ma nell’accezione giornalistica entra in uso ben più tardi, e richiama innanzi tutto una straordinaria firma del Corriere della Sera. Il più grande di tutti è stato infatti Silvio Negro, del quale Gaetano Afeltra ha ricostruito una vicenda sconosciuta: le circostanze dell’iniziale mancata assunzione nel quotidiano, attraverso le lettere scambiate tra il giovane giornalista e il direttore, «segno di rispetto e di rigore da una parte e dall’altra».

Laureatosi in lettere a Padova, il vicentino Negro aveva cominciato «all’Osservatore Romano con l’incarico dello spoglio della stampa francese ed inglese. Uscito dall’Osservatore il caporedattore Zanetti, il sottoscritto – così si presentava – gli subentrava nelle mansioni e non nel titolo, restando a quel posto fino all’ottobre del 1923». Passato un anno nel quotidiano cattolico milanese L’Italia, si candidò al Corriere, che Negro nella sua lettera definiva «redazione di sicura competenza e di altissima reputazione professionale»; dichiarandosi disponibile a Milano ma «lieto anche se il giornale penserà di giovarsi altrove di quel po’ di conoscenza del mondo romano, e Vaticano in ispecie», maturata all’Osservatore.

Alla risposta negativa, accompagnata però da un cenno possibilista («se le circostanze si muteranno»), Negro replicò fiducioso. Ed effettivamente poco più tardi, nel 1926, entrò al Corriere, dove sarebbe rimasto per oltre un trentennio, trasferito dal 1931 a Roma con l’incarico di seguire il piccolo mondo di Oltretevere.

Luoghi e ambienti che seppe raccontare come nessuno in articoli parzialmente raccolti in bellissimi libri – Vaticano minore, poi Seconda Roma, dedicata all’ultimo ventennio del dominio temporale dei papi, e il postumo Roma non basta una vita – divenuti preziose fonti storiche. Conoscitore profondo di uomini e storie, morì all’improvviso nel 1959, appena sessantaduenne. Fece appena tempo a vedere stampato il suo ultimo articolo, un obituario, scritto magistralmente.

A commemorarlo sul Corriere fu il collega Carlo Laurenzi, anch’egli scrittore, e rileggerne la testimonianza dà la misura della distanza odierna dal giornalismo di allora: «Parlando di Silvio Negro, mi chiedo se sia giusto che mi diffonda sul nostro dolore. La moralità del nostro mestiere consiste anche, e soprattutto, nel cancellarci: serviamo il pubblico, e non conta la nostra pena. Ma il pubblico non abbandona Silvio Negro: non può; lo ha troppo letto ed amato. Negro viveva fra noi; il nostro lavoro comune era la sua vita. Il nostro smarrimento fa “notizia”, come diremmo in gergo».

Rovesciamento

Tre anni dopo si apriva il concilio, avvenimento che Negro non vide e che segnò una fioritura improvvisa dell’informazione religiosa, con un livello mai più raggiunto, non solo in Italia. La stampa internazionale scoprì infatti il Vaticano e la chiesa cattolica. Ma da oltre un decennio giornalisti (e scrittori) italiani sia laici che cattolici – Carlo Falconi, Benny Lai, Arcangelo Paglialunga, Fabrizio De Santis, che di Negro fu successore – erano alle prese con quel piccolo mondo sconosciuto, chiuso e antiquato, per scovarvi notizie e raccontarle.

Ognuno di loro, naturalmente secondo la propria ottica e in dipendenza da fonti curiali o ecclesiastiche, si dimostrò in fondo libero da eccessivi condizionamenti. In alcuni casi gli italiani divennero a loro volta fonti per i colleghi stranieri, come racconta lo scrittore australiano Morris West in romanzi verosimili e antiveggenti. Una situazione ben diversa da quella attuale, come mostrano gli articoli – o meglio la loro rarefazione – nelle diverse testate italiane. Tanto che la situazione si è più di una volta rovesciata a vantaggio dei media internazionali, per la maggiore autonomia di giudizio esercitata da giornaliste e giornalisti, in genere statunitensi o francesi.

In prevalenza italiana, invece, era stata la preistoria dell’informazione in Vaticano, al tempo di Pio XI, quando in Italia già si era imposto il regime fascista, e la vicenda ha tratti romanzeschi. Di fronte al mondo della stampa la Santa sede – che pure nel 1861 aveva favorito la fondazione del quotidiano L’Osservatore Romano, acquisito però soltanto dopo il 1885 – si era chiusa a riccio, scottata dagli infortuni delle prime interviste papali che avevano provocato accese polemiche: nel 1892 con Leone XIII sull’antisemitismo e nel 1915 con Benedetto XV sulla guerra.

Più sensibile alla dimensione informativa, papa Ratti si convinse a utilizzare un curiale, monsignor Enrico Pucci, che con il mondo del giornalismo aveva consuetudine e che svolse una funzione d’intermediario, quasi da portavoce ufficioso. Il prelato filtrava notizie ad agenzie e a testate diverse, italiane e internazionali, riassumeva i discorsi del papa, a pagamento scriveva articoli in prima persona, ma nello stesso tempo era anche un informatore della polizia fascista, come allora qualcuno subodorava e poi si è accertato. Il curiale «alimentava, bene o male, i nostri servizi – ha ricordato Max Bergerre, che da vero giornalista seguì sei pontificati – con i suoi bollettini quotidiani che i suoi collaboratori battevano a macchina in diverse copie alla buona ed era divenuto insostituibile per i discorsi del papa».

Pio XI di frequente improvvisava, con continue digressioni, e il monsignore era «imbattibile nel ricostruirli sulla base dei suoi appunti», al punto che persino «L’Osservatore Romano» arrivò a servirsi delle sintesi diffuse dalla «banda Pucci». Tacitamente ammessi, questi vaticanisti pionieri erano ospitati in una stanza assegnata ai pompieri vaticani nel cortile di San Damaso, cuore del Vaticano, finché per seguire la sede vacante del 1939 – grazie al sostituto Giovanni Battista Montini, figlio di un giornalista – in un locale adiacente alla sede dell’Osservatore si allestì una sala stampa, che dopo il concilio venne trasferita nella sede attuale di via della Conciliazione.

Lo sterminio

Frammenti di questa preistoria emergono ora nel libro di un vaticanista di lunghissimo corso, Bruno Bartoloni, con episodi poco conosciuti e spesso divertenti sulle vicende della Santa sede e testimonianze in prima persona. Corrispondente dal Vaticano dell’Agence France Presse e collaboratore di diverse testate (tra cui il Corriere della Sera), l’autore ha intitolato questo suo racconto Zucchetti e kippah (Pagliai), da vivace professionista qual è nonché figlio d’arte, perché il padre Giulio era della banda Pucci.

Gli zucchetti sono ovviamente quelli dei più alti prelati, di colore viola per i vescovi, rossi per i cardinali e bianco per il papa, la kippah è l’identico copricapo ebraico. Il libro è infatti diviso in due parti, tra fatti recenti e storia, sullo sfondo di vicende drammatiche che al tempo della Shoah travolsero il ramo materno della famiglia, imparentata alla lontana con Felix Mendelssohn-Bartholdy e in relazione con Albert Einstein. L’autore le racconta con sobrietà, intrecciando memorie riferite e documentate con i ricordi personali di bambinetto che a quattro anni giocava nelle strade di Roma appena liberata. «Sono tornato a essere ebreo il 7 luglio 1944. Quel venerdì, voglio credere al tramonto quando il sabato era ormai iniziato, mio nonno Fritz è morto nel blocco 19 ad Auschwitz. Di “morte naturale”, come scrisse pietosamente a mia nonna Hilde il 18 giugno 1947 Tadeusz Pawlak», un prigioniero politico polacco, racconta il nipote.

Sullo sterminio degli ebrei Bartoloni cita le parole di Benedetto XVI, che nel 2009 definì i campi nazisti «simboli estremi del male, dell’inferno che si apre sulla terra quando l’uomo dimentica Dio e a lui si sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere cosa è bene e cosa è male, di dare la vita e la morte». E raffronta la condanna papale alla storia controversa ma imbarazzante di Roccatederighi, dove furono concentrati un’ottantina di ebrei, in un edificio della diocesi di Grosseto affittato ai fascisti dal vescovo Paolo Galeazzi. Il tono è invece spesso scanzonato per quanto riguarda gli zucchetti. Con molti episodi di una storia minore del Vaticano. Dove si alternano i menu papali raccontati dai giornali fin dal tempo di Pio XI, l’angelologia – di cui era espertissimo monsignor Giuseppe Del Ton, erudito classicista – e gli immancabili tornei di calcio in Vaticano. Con curiosità sulla marina pontificia e sui ricorrenti guai statici dell’immenso cupolone di San Pietro.

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