Nel momento fatale in cui si surriscalda improvvisamente la guerra fredda fra Stati Uniti e Cina, Sandeep Chowdhury, un funzionario del Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti con un’inclinazione per il monologo interiore, recita nella sua testa l’incipit di un briefing politico-esistenziale: «L’America che crediamo di essere non è più l’America che siamo».

L’essenza del conflitto, insomma, non si colloca all’esterno, ma all’interno. Il motore della guerra mondiale incipiente non è l’esecuzione imperfetta di una strategia di leadership globale, ma la perdita della bussola che segna la virtù, la tragica incapacità di vivere all’altezza dei propri ideali. Questo è il problema che tiene sveglio la notte il giovane cresciuto in una famiglia indiana emigrata negli Stati Uniti, e a lungo andare è quasi inevitabile che questo problema faccia scoppiare un conflitto trasversale e insolubile.

Mentre il funzionario pensa a tutte queste cose nel salotto di casa, la Cnn annuncia di avere ottenuto in esclusiva un video. L’anchorman avverte che non è adatto agli spettatori più sensibili. Mostra il pilota di un caccia americano finito nelle mani dei pasdaran a seguito di un cyberattacco che nessuno è ancora riuscito a decifrare, ma tutti hanno ricondotto all’iniziativa tecnologica di Pechino. 

Chowdhury non ha bisogno di vedere il video. Ne conosce il contenuto e soprattutto il significato. Sa già che il pilota americano ha perso il controllo del mezzo, che è stato docilmente telecomandato da mani nemiche in una base militare dell’Iran e il malcapitato è stato fatto prigioniero.

Sa che si tratta di una rappresaglia per un’azione nel mar Cinese del sud, dove una flotta americana impegnata nella missione di pattugliamento per la “libertà di navigazione” ha fermato una nave cinese che nasconde nella stiva un’arma devastante e misteriosa.

Sa anche, naturalmente, che l’Iran si muove per conto della Cina dalla metà degli anni Venti del Ventunesimo secolo. «Quando l’Iran ha firmato l’iniziativa globale cinese “Belt and Road” per impedire il collasso finanziario dopo la pandemia di coronavirus», Teheran ha contribuito a «promuovere gli interessi economici e militari dei cinesi» nella regione.

Chowdhury si precipita verso la Casa Bianca senza nemmeno spegnere il televisore.

Un romanzo sul presente

Questo è lo scenario realisticamente inquietante presentato in 2034: A Novel of the Next World War, un raffinato saggio sulla geopolitica globale travestito da romanzo da autogrill, praticamente una zuffa fra il generale Patton e Tom Clancy ambientata fra il mar Cinese del sud e la Casa Bianca.  

Il doppio registro di questo thriller militare corrisponde alla doppia firma che porta il libro. Uno degli autori è Elliot Ackerman, giornalista, analista politico, romanziere e veterano dei marines che ha servito in Iraq e in Afghanistan. Il secondo autore è James Stavridis, ammiraglio in pensione che è stato comandante delle forze Nato in Europa dal 2009 al 2013, anni in cui ha tentato una trasformazione della leadership militare dell’Alleanza atlantica ampiamente studiata nelle migliori business school americane. Il primo ci mette il mestiere letterario, il secondo la visione strategico-politica.

Stavridis è un militare-intellettuale la cui idea delle relazioni globali si colloca nell’ambito dell’internazionalismo liberal a trazione americana. Il mondo che immagina non è quello strettamente «unipolare» auspicato da Charles Krauthammer e dagli intellettuali neoconservatori all’inizio degli anni Novanta, ma una sua versione allargata ad un ambito di proficue relazioni diplomatiche, economiche e militari che hanno come perno un’America ben consapevole della sua missione civilizzatrice e democratizzante.

Nessun particolare orgoglio belligerante o guerrafondaio, certo, però la necessità di un rinnovamento dell’ethos del paese, per tornare a vivere all’altezza dei suoi ideali originari, presuppone che questi ideali esistano e che siano buoni e praticabili. È un avvocato della restaurazione americana, non un abbattitore di statue che rimandano a violenze e prevaricazioni come elementi fondanti del progetto americano. Questa visione del mondo è fedelmente trasferita nell’esperimento letterario.

La vicenda, come dice il titolo, si svolge nel 2034, cioè dietro l’angolo, cosa che solleva tutti quanti dal tedioso onere di descriverlo come un romanzo distopico. È lo svolgimento verosimile di premesse che sono già in atto.

Mike Pence ha appena concluso il suo primo e unico mandato presidenziale. Il suo successore non è solo la prima donna a diventare presidente degli Stati Uniti, ma è anche la prima candidata a vincere le elezioni correndo come indipendente, segno della corrosione del sistema bipolare americano.

Donald Trump e la sua eredità isolazionista aleggiano, ma non sono le protagoniste assolute dello scenario strategico. Certo, nel libro non si trova traccia degli alleati dell’America, la Nato è impalpabile, l’occidente è frammentato, Washington è sola a presidiare una fortezza introflessa, ma l’inizio della disputa con la Cina si ricollega alla politica di Barack Obama, il presidente che è inciampato proprio mentre faceva il “pivot to Asia”.

Le condizioni per uno scontro

Comunque vadano ridistribuite le responsabilità politiche, nel 2034 del romanzo si realizzano tutte le condizioni che rendono possibile, se non inevitabile, uno scontro con la Cina su larga scala. Quando il commodoro Sarah Hunt conduce la flotta ai margini di uno degli arcipelaghi contesi del mar Cinese è consapevole delle conseguenze: «Passare attraverso le isole Spratly con la sua flotta era l’equivalente legale di sgommare con la macchina sul curatissimo giardino del vicino dopo che ha spostato la sua staccionata un pochino troppo all’interno della tua proprietà», scrivono gli autori. 

«Questo è quello che i cinesi hanno fatto per decenni: hanno spostato la staccionata un po’ più in là, un po’ più in là, un po’ più in là, fino a rivendicare la sovranità sull’intero oceano Pacifico».

Nel mondo al di fuori della finzione questa dinamica è già in atto, e infatti Stavridis al telefono parla di una «crescente possibilità» che un incidente, un disputa imprevista, una curva a gomito della storia sul modello dell’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando possa far precipitare una situazione precaria. «Una guerra improvvisa può accedere», dice, «e se succederà è necessario ammettere che la colpa è di entrambi i contendenti».

L’imperialismo americano è sul banco degli imputati non da oggi – e la strana convergenza fra conservatori nazionalisti di ascendenza trumpiana e radicali post-marxisti sulla necessità del disimpegno americano ha allargato il fronte un tempo presidiato solo da Noam Chomsky e compagni – ma il regime cinese non è certo innocente.

Ci sono elementi che pesano come macigni sulle relazioni globali: «Le pratiche commerciali scorrette, la persecuzione degli uiguri, costretti in campi di concentramento, e le rivendicazioni sul mar Cinese», elenca Stavridis, che da buon ammiraglio teme più gli scontri militari sulle rotte marittime che quelli immateriali sul fronte dei dazi. «Quello che sta facendo la Cina nel mar Cinese del sud è inaccettabile, è come se l’Italia rivendicasse il controllo totale sul mare Adriatico». Solo che il mar Cinese del sud copre un’area grande quanto metà del territorio degli Stati Uniti.   

Recuperare l’eccezionalismo

Un recensore del New York Times ha scritto che il libro è un «canto del cigno per l’eccezionalismo americano» e Stavridis, come il funzionario-eroe che mette in scena nel romanzo, non nasconde il timore che l’America si contenti di essere meno di ciò che dovrebbe essere.

Parla del romanzo come di una “cautionary tale”, una fiaba per mettere in guardia chi la legge dai rischi che il mondo corre se crede di poter gestire le frizioni con il regime di Pechino senza affidarsi a un’alleanza multilaterale che ha come punto di riferimento gli Stati Uniti.

L’ammiraglio teme, nell’ordine, che «gli Stati Uniti non siano più la potenza dominante» del mondo contemporaneo, che «possa logorarsi il sistema tradizionale delle alleanze occidentali» e che tutto questo possa sfociare in una guerra che «sarebbe devastante sia per gli Stati Uniti sia per la Cina». Una prospettiva apocalittica? In genere le “cautionary tale” si raccontano prima dell’apocalisse. E se poi l’apocalisse poi non si materializza, vuol dire che hanno funzionato.

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