Se si parla di spezie, guardiamo sempre lontano: alle isole indonesiane, soprattutto, dove il colonialismo britannico e quello olandese si sono combattuti sulla pelle di chi abitava lì, per conquistare noce moscata e chiodi di garofano, pepe e cannella.

Come se la passione per i profumi evocatori, capaci di cambiare un piatto blando in un susseguirsi di aromi meravigliosi, fosse arrivata solo attraverso viaggi così lunghi, avvenuti in particolare dal 1400 in poi, quando l’Europa (Portogallo in testa, seguito dalle altre potenze europee) aveva cominciato a sentirsi superiore al resto del mondo e andava in giro impossessandosene con le armi.

Ma in parallelo alla via delle spezie, per lo più marittima, e alle lente carovane della via della seta che attraversavano l’Asia centrale, e dove i mercanti si arricchivano di nuovi tesori ad ogni tappa, ci si dimentica spesso del centro dell’universo commerciale che sono stati, a cominciare dalla notte dei tempi, i paesi del medio oriente, una vasta area da cui sono partite alcune delle spezie che ci sono più familiari di tutte. Ormai talmente parte del repertorio gustativo universale da far dimenticare che, come tutto, hanno avuto origine in un luogo particolare del pianeta.

Su tutte queste spicca il cumino, di cui si utilizza il piccolo seme contenuto nel frutto della pianta – fatto essiccare, e poi consumato sia intero che in polvere, e che da millenni viaggia instancabile insaporendo i piatti del mondo intero, intrufolandosi fra carni, verdure, pesci, farine e chicchi di riso, e perfino caglio per creare formaggi.

Appartiene alla famiglia delle appiacee, anche chiamate umbelliferae (di cui fanno parte anche la carota, il prezzemolo, il sedano e il finocchio), ed è una pianta annuale, con piccolissimi fiorellini bianchi distribuiti per l’appunto ad “ombrellino”.

Le origini

È talmente diffuso e talmente adattabile a diversi tipi di piatti che gli archeologi stessi non sono del tutto certi sul dove piazzarne le origini esatte: probabilmente in Siria, ma ne sono state trovate tracce anche nelle mummie egiziane, come uno degli elementi utilizzati per la profumazione e conservazione dei corpi. La prima menzione scritta che abbiamo del cumino però è in tre tavole in lingua accadica, in scrittura cuneiforme, che risalgono circa al 1700 a.C., trovate in quello che oggi è Iran del nord. Nelle tavole si parla infatti di kamumu, non poi così lontano dall’arabo kamun, con cui viene ancora chiamato il cumino in arabo – kimyon e kymino sono invece, rispettivamente, turco e greco, i due paesi da cui si pensa che sia transitato il cumino per arrivare dal Medio Oriente all’Europa occidentale (Italia inclusa). Dal momento che viene utilizzato da millenni (si parla di cumino anche nella Bibbia!), sapere precisamente come si sia mosso è piuttosto difficile, e la cosa più comune davanti a questa spezia con il dono dell’ubiquità è proprio quella di notare che è fra le più usate, le più diffuse, e le più antiche. Praticamente tutti lo usano, poco o tanto che sia.

Quando si dice che il cumino è la spezia che ha viaggiato di più, s’intende proprio quanto profondamente questa sia diventata parte intrinseca di cucine lontane fra loro, al punto che nessun messicano potrebbe pensare che il cumino, onnipresente, non sia messicano, così come succede in una cucina indiana, libanese o cinese. In Italia, viene messo su alcuni panini tanto in Sicilia che in Trentino-Alto Adige. In Olanda, dove, eccezion fatta per i dolci, la cucina non è nota per il suo utilizzo di spezie, il cumino viene non di meno inserito in alcuni formaggi, che si chiamano komijnekaas – formaggi al cumino – il più famoso dei quali è preparato a Leiden, il Leidsekaas, a pasta gialla morbida tempestata di semini, e una buccia rosso ambrata che lo rende facilmente riconoscibile. Ma anche in Georgia nessuno saprebbe fare a meno della miscela di sale, cumino e altre spezie chiamata svanuri marili.

I diversi terroir producono semi di cumino leggermente diversi gli uni dagli altri, la differenza fra il cumino che viene dalla Cina, dal Medio Oriente o da altre parti del mondo è solo nel colore e nella dimensione dei semi, ma non nel sapore. Tutti i tipi di cumino infatti hanno quello stesso gusto un po’ d’agrume, leggermente amarognolo ma con un fondo di nocciola che lo rendono la star di mille preparazioni.

Come si usa

Oggi, il 70 per cento circa del cumino cresce in India, dove fu portato da mercanti persiani, secondo quello che possiamo dedurre linguisticamente: jeera è la parola più diffusa nel subcontinente indiano per parlare di cumino, che in farsi si chiama zeera.

Anche in Cina è arrivato con i commercianti islamici (sia arabi che persiani, motivo per cui il cumino si chiama sia kumeng che zeran), che portavano prodotti esotici, versi poetici di grande bellezza, e il Corano. È infatti particolarmente presente nei piatti della cucina hui – il nome dato alla popolazione cinese islamica, presente sulla quasi interezza del territorio. Gli hui stessi si dicono discendenti di commercianti arabi arrivati nel sud della Cina durante la dinastia Tang (581-618) a cui l’imperatore aveva dato il permesso di sposare donne cinesi, e di vivere su suolo cinese. In cucina, uno degli hui contemporanei più famosi è senz’altro Wang Shou Yi, un imprenditore il cui nome, e fotografia, sono da decenni su delle scatoline di cartoncino giallo che contengono spezie macinate, sia nella versione di tredici spezie che in quella di cinque. Il cumino spicca in entrambe, ed è consigliato soprattutto per rendere più profumata la carne, in particolare ovina. Wang stesso guarda un po’ sornione dai pacchetti, con in testa la shashia musulmana bianca, e la barba di qualche giorno. Spostandosi verso il Gansu e il Xinjiang invece, il cumino regna sovrano nei condimenti degli spaghetti freschi tirati a mano, i lamian, che prendono il loro sapore da un sugo fatto di pomodoro, peperoni, cipolla, aglio, peperoncino, a volte agnello o altre carni, e, sempre, una generosa spolverata di cumino.

In India e in Nepal è difficile pensare ad un singolo piatto che ne faccia a meno – dapprima tostato a secco, in una piccola padella senza olio, viene poi macinato nel mortaio sprigionando tutto il suo aroma. In una tecnica diversa, chiamata tadkha, viene fatto soffriggere nell’olio di cocco oppure nel burro chiarificato (chiamato ghee) insieme a qualche foglia di curry, un po’ di peperoncino e qualche minuscolo seme di mostarda perfettamente rotondo, per poi mescolare questi potenti aromi agli stufati di lenticchie (dahl) o versarli sopra piatti di svariata natura.

In Messico e nel resto dell’America Latina, il giro è un po’ più intricato, ma è anche la prova ultima della passione per i viaggi del cumino: i conquistadores, infatti, erano ancora molto influenzati dai lasciti dei mori, o degli arabi. In cucina, questo significava il cumino. Così furono degli spagnoli ancora arabizzati a portare il cumino nei moles del Messico, nei frijoles neri cubani o nei locros argentini, anche se oggi, nella cucina spagnola, si usa con meno abbandono di quanto non avvenisse in precedenza.

È una delle poche spezie ad aver fatto il viaggio dal “vecchio mondo” verso i paesi della conquista spagnola e portoghese, dai quali tanto si è preso, a livello alimentare e non solo: melanzane, patate, batate, pomodori e tutti i tipi di peperoni, in cambio dei semini profumati del cumino e delle mandrie di mucche per i latticini.

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