Nelle nuove indicazioni nazionali per la scuola è interessante notare che tra i vari annunci sbandierati come novità c’è quello dell’educazione musicale e artistica sin dalla scuola primaria, per favorire lo sviluppo della creatività e dell’espressione personale.

A tal fine, il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha siglato un protocollo d’intesa con la “Fondazione Uto Ughi”, per «sensibilizzare e coinvolgere gli studenti delle scuole, di ogni ordine e grado, all’ascolto e alla conoscenza della musica classica attraverso la riscoperta dei luoghi della musica».

È difficile negare che le intenzioni ministeriali siano buone. Chi avrebbe il cuore di ghiaccio di opporsi alla musica, all’arte, e, per estensione, alla Bibbia o alla storia d’Italia? Poste così, le questioni sembrano quelle domande che si fanno ai bambini piccoli: «Vuoi più bene alla mamma o al papà?».

A scendere un po’ di più in profondità, così come, ad esempio, già Massimo Cacciari ha fatto notare che dire “Bibbia” non significa nulla – perché stiamo parlando di libri diversi, scritti in epoche diverse da diversi autori, la cui lettura richiede una specifica e approfondita formazione degli insegnanti – anche dire “musica” o “musica classica” è davvero troppo generico e non spiega nulla di ciò che si intende fare e, soprattutto, di come lo si vuole fare.

Esistono da decenni, in giro per il mondo e in Italia in particolare, approcci di pedagogia musicale – e relativi metodi, pratiche di lavoro, professionisti e professioniste che vi si applicano – che, persino a partire dai primissimi mesi di vita dei bambini e delle bambine, avvicinano gli esseri umani a questa decisiva e insostituibile esperienza.

Se ci capitasse di incontrare, ad esempio (ma un elenco compiuto e completo non potrebbe trovare qui spazio, perché le realtà associative e le donne e gli uomini che vi lavorano sono, per fortuna davvero tanti) a Lecco, chi lavora nel Centro studi “Maurizio di Benedetto” e anima la rivista digitale di educazione al suono e alla musica “Musicheria”, ci racconterebbe una storia un po’ diversa.

Così come, ad esempio a Roma, la Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia e quella di Testaccio, l’associazione internazionale Musica in culla. O, ad Avigliana, in Piemonte, il Centro Studi di Didattica Musicale “Roberto Goitre”.

Formatori e formatrici che utilizzano la Metodologia Orff-Schulwerk e altre e altri ancora ci direbbero che se qualcuno sta davvero pensando che per avvicinare alla musica l’infanzia e l’adolescenza si debba far riferimento a metodologie e pratiche superate da quel dì (il solfeggio fin da piccolissimi?, l’insegnamento dello strumento?, lo studio delle partiture?, le vite dei grandi musicisti?, la gita a Busseto o a Castiglione del Lago?) rischierebbe non solo di causare un precipitoso ritorno all’indietro dopo decenni di innovazione pedagogica e didattica, ma di riportare in auge pratiche restrittive e asfittiche che avrebbero, con grande probabilità, il risultato di allontanare studenti e studentesse dalla passione per la musica.

O, ancora, ci direbbero che tornare alla definizione di “musica classica”, intendendola, come sembrano fare sia il ministero che l’eccellentissimo Uto Ughi, come territorio esclusivo di produzione musicale valida e sublime, è non solo improprio, ma del tutto controproducente.

Gli esseri umani si avvicinano alla musica in moltissimi modi, persino da quando stanno nel grembo materno e proprio grazie alla voce della madre. E, ai tempi nostri, ormai dovrebbe essere al colto e all’inclita che le etichette e gli steccati rigidi – di qua la cultura alta, di là quella popolare; di qua la musica classica, di là quella leggera etc. – sono semplicemente fittizi e (guarda caso) strumentali.

Il punto principale, quindi, è di avere nella scuola italiana insegnanti formati all’educazione musicale secondo teorie pedagogiche e pratiche didattiche che davvero tengano conto delle componenti percettivo-motorie, cognitive, affettivo-sociali che sono necessarie alla crescita (guarda caso) armonica dei bambini e delle bambine e delle ragazze e dei ragazzi. In caso contrario si perderebbe la centralità dei soggetti da educare, con pratiche vetuste e superate che, come dimostrato da decenni, non funzionano nemmeno per gli obiettivi che si sono date.

Nella scuola italiana non dobbiamo pensare ad alunni e alunne che debbano necessariamente diventare grandi violinisti o eccelse pianiste o inarrivabili direttori o direttrici d’orchestra, ma a soggetti che vivano nella dimensione del suono che avvolge tutti noi con la sensibilità di apprezzarne le mille variazioni e, perché no, di inventarne di nuove.

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