Spenti i riflettori su Vincenzo Muccioli e la sua storia controversa, si riaccendono, senza clamori, sulla comunità di San Patrignano, attraverso un documentario di Maria Tilli, prodotto da Simone Isola e da Rai Cinema, dal titolo: Lontano da casa, la storia di un gruppo di ragazzi ospiti oggi della comunità riminese.

L’occasione è data dalla fine del percorso di recupero di uno di loro, Stefano, 27 anni, che molto serenamente, all’inizio del film dice: «Se mi chiedessero: vuoi restare qua, io direi no, sono entrato talmente giovane, a 21 anni, che la vita non l’ho nemmeno assaggiata». Sei anni di vita separata per disintossicarsi. Sei anni.

Subito è chiaro l’intento della regista, la comunità è un pretesto, sono le storie dei ragazzi e delle ragazze a interessarla. San Patrignano è il luogo che le ha dato la possibilità di raccoglierle, e infatti la comunità fa da sfondo, con i suoi spazi di lavoro, la mensa, che abbiamo imparato a conoscere con Sanpa, i suoi stradelli che diventano improvvisati set per raccogliere percorsi di vita che hanno trovato a San Patrignano una inattesa rimodulazione.

Le storie si assomigliano e sono tutte diverse e raccontano una cosa soltanto: la normalità della tossicodipendenza, oggi.

Una delle conseguenze più dannose che la serie Sanpa ha avuto, infatti, sul dibattito pubblico è stata sicuramente quella di relegare la tossicodipendenza a una dimensione storica superata, legata agli anni Ottanta.

Lontano da casa, invece, ci mostra con grande semplicità che la tossicodipendenza è qualcosa che sta nel nostro quotidiano, che è fatta di un mix perfetto di medicinali, fumo, alcool, e poi a un certo punto di sostanze come la cocaina e l’eroina, ma il limite è esilissimo, e il passaggio da psicofarmaci a eroina è spesso più semplice di quello che si possa pensare.

I racconti

Daniele, 21 anni, in comunità da un anno e mezzo, ha iniziato a fumare cocaina piccolissimo. «Io mi drogavo per sentirmi più grande e poi perché la droga è buona ti fa stare bene, tutti i problemi non ci stanno, la testa è vuota, io ho iniziato a drogarmi perché non riuscivo ad affrontarli i problemi. Anche litigare con un amico per me era una cosa ingestibile, non riuscivo ad affrontarlo se non mi facevo sopra una canna, una bevuta, una pippata, per me una litigata era una montagna da scalare, invece se mi facevo tutto era più facile, in discesa, quasi un tuffo in piscina. La mia prima botta è stata in seconda media, avevo tredici anni, ero stato bocciato in prima, ero preso in giro da ragazzino, ero stufo di essere quel ragazzo, volevo essere qualcuno, così ho iniziato a fumare la cocaina, poi a rubare i primi soldi a casa. In seconda superiore ho lasciato la scuola, anche se dalle medie ci andavo e non ci andavo. Se non fumavo non stavo bene. Allora mia madre mi ha portato dallo psicologo che le ha detto che mi opprimevano troppo, di lasciarmi respirare. Io mi sono attaccato tantissimo a questa cosa qua, e da quel momento ho fatto come mi pareva».

Stefano e Daniele allo stesso modo sono passati dalla cocaina all’eroina perché a un certo punto la cocaina rende la vita insostenibile soprattutto per la mancanza di riposo, non si prende sonno, non si riesce a dormire più. C’è chi si abbotta di sonniferi, tranquillanti e chi fuma l’eroina. Molto semplice. Anche perché molto semplice ed economico è acquistarla, ovunque. Sotto casa, con un sms, basta avere il numero giusto, come farsi recapitare una pizza.

L’ingresso in comunità lo racconta Nicol, 23 anni: «È stato terribile, mia madre mi ha detto o smetti o stai per strada, ma io per strada non volevo starci e sono venuta qua». E Filippo, 23 anni: «Io ero in attesa del processo e l’avvocato mi ha detto ti conviene che vai a San Patrignano perché in alternativa c’è il carcere». La comunità come misura alternativa al carcere, in alternativa c’è l’affidamento a servizi territoriali, ma per chi è stato buttato fuori di casa o una casa non ce l’ha. Una situazione molto difficile da gestire.

Martina, anche lei in comunità da circa un anno, legge la lettera che le ha scritto la madre, ed è una lettera che ognuno di noi potrebbe scrivere, non c’è nessuna eccezionalità, una lettera piena di affetto per la figlia, da parte di una mamma normale a una figlia normale, che si è trovata a non saper gestire la dipendenza da una sostanza o da più sostanze, che per fortuna non è morta, che per fortuna questa lettera se la porta in tasca e può rispondere se vuole.

Caterina ha 23 anni, e ragiona molto, come tutti del resto in questo film, sul rapporto con la sostanza: «L’eroina per quanto è stata brutta, per quanto è una roba schifosa che ti porta via tutto però m’ha fatto anche vedere che io senza non sapevo sta al mondo, m’ha fatto vedere degli aspetti di me, del fatto che l’unica cosa che cercavo era sta bene con me stessa che quella sostanza era in grado di darmi anche se non era una cosa mia naturale, mi ha fatto capire quanto sono debole quanto sono fragile, quanto ho bisogno di aggrapparmi alle cose».

Nella sua biografia nessuna predestinazione, come vorrebbero certi giornalisti che raccontano i fatti di droga solo come eventi che ai loro lettori non potrebbero mai accadere, bene, le cose non vanno così, per niente: dice Caterina: «Ero una bambina solare, felice, strana», e possiamo vederla nei filmini delle vacanze della sua infanzia, davvero felice e solare, strana non capiamo cosa significa, ma questo è, come dice lei stessa, quello che si sentiva lei quando si guardava allo specchio.

Grassa, brutta, inadeguata. Caterina è bella, simpatica, intelligente, è chiaro, basta sentirla parlare cinque minuti per capire che quello che non va, che non è andato, non è stata certo lei ma qualcosa che le stava intorno: definire cosa però non è semplice, non basta la sua testimonianza, sicuramente, a farcelo capire.

Cosa c’è fuori

Mentre è molto utile per capire alcuni meccanismi del consumo: Caterina racconta di come, per esempio, nei momenti di dipendenza più acuta, quelli nei quali ha avuto più bisogno di soldi, fosse molto facile procurarseli attraverso mercati virtuali, dove, per esempio, la fotografia di un paio di piedi venduti a un feticista incontrato online portava un guadagno immediato di cento euro. Neppure la necessità di rubare, tutto legale, tutto secondo le regole, tutto entro gli schemi del mercato.

Anche Stefano racconta di come abbia rubato i cerotti alla morfina a una vicina malata di tumore per poi mangiarseli. E Daniele di come la mancanza di ogni controllo nel cantiere in cui ha lavorato gli abbia permesso di lavorare fatto, guidando un camion senza patente e smaltendo la terra nel fiume, oltre ogni legge.

A volte guardando il film, ascoltando le voci di questi ragazzi e ragazze sembra di assistere alla messa in scena di una striscia dei Peanuts dove tutti sono finiti a farsi: penso ai Peanuts perché del tutto assenti se non come riferimento affettivo ma anche mostruoso, sono le voci degli adulti.

La fine, che non voglio raccontare, è un pugno nello stomaco ma anche una domanda aperta che ci interroga su cosa c’è fuori dalla comunità, intorno a noi, cosa c’è quando, dopo anni passati lontano da casa, la casa la ritroviamo. Chi c’è ad aprirci la porta, chi ad abbracciarci, a dirci, bentornato, bentornata.

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