Con un certificato si può vantare la proprietà su “oggetti digitali” che hanno innumerevoli copie. Non è l’avere che conta, ma il poter dire: «Questo è mio». C’è un istinto profondo dietro questa apparente insensatezza
- La rappresentazione classica della vanità è statica. Per esempio una persona che si guarda allo specchio e osserva, con compiacimento, la propria immagine riflessa.
- La vanità però può anche essere vista come una funzione che trasforma l’avere in essere. Possedere qualcosa e dunque poter dire di possederlo. Assumere un’identità, l’identità del proprietario. Identificarsi, darsi una dimensione esistenziale. Ed essere visti dagli altri.
- Nella vanità l’avere e l’essere si confondono. Forme di ostentazione che possono diventare merce di scambio, ma che soprattutto permettono un arricchimento dell’immagine pubblica.
Facciamo un gioco. Immaginiamo un gruppo di persone, molte persone. Decine, centinaia, migliaia, milioni, anzi l’umanità intera. E immaginiamo un oggetto, non importa quale, per esempio un braccialetto. Bellissimo. Il braccialetto più bello del mondo. In realtà la bellezza è irrilevante ai fini del gioco, ma in fondo perché rinunciarci, visto che stiamo costruendo una fantasia. Di questo braccialetto esiste, per ragioni che non ci interessa esplorare, un numero potenzialmente infinito di copi



