I tempi di Stefano Rusconi e Vincenzo Esposito, i due primi italiani a giocare – poco – e a sedere sulle panchine – molto – della Nba oggi sembrano davvero lontani.  La lega cestistica americana  è sempre più internazionale anche nelle rose dei giocatori, star incluse.  La compagine di giocatori italiani capitanata da Danilo Gallinari quest’anno perde Marco Belinelli – che torna a giocare a Bologna dopo tredici anni negli Stati Uniti – e acquisisce l’italo-americano Nico Mannion e, se vedrà confermato il suo contratto di prova, l’italo-camerunese Paul Eboua.

Dall’anno scorso a New Orleans gioca anche Nicolò Melli, ala grande della nazionale dotata di una mano educata nel tiro da fuori. L’ho raggiunto mentre cerca casa dopo che la scorsa primavera la pandemia di Covid-19 ha sorpreso lui e sua moglie in un appartamento senza giardino. Gli ho chiesto se il campionato americano è come se l’aspettava e molte altre cose, la nostra conversazione è disponibile in forma integrale su YouTube, Spotify e tutti i principali canali podcast, quella che segue è una sintesi della nostra lunga chiacchierata.

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«L’Nba è un mondo bello, è un sogno che si realizza, è tutto organizzato alla perfezione, la lega in sé è una potenza assoluta, si vede anche da come arriva in tutto il mondo, poi ci sono anche le cose che in televisione non vedi, come la quotidianità, il modo di giocare diverso dall’Europa. Alcune cose me le aspettavo, altre meno, complessivamente però sono contento», dice.

Gioco più atletico ma meno fisico

Giocare nella Nba significa adattarsi a un tipo di pallacanestro molto diverso da quello europeo, nel quale Nicolò si era distinto soprattutto in Eurolega. «In Nba ho giocato solo la regular season, i playoff mi dicono essere una cosa diversa, ma per ora la mia esperienza è quella di un basket più atletico ma meno fisico, più rapidità ma meno contatti, ci si picchia di meno, si lascia meno correre. Tatticamente in Europa c’è molta più attenzione ma è anche una questione di tempo che si può dedicare a preparare le partite». 

I  palazzetti della Nba, con una media di circa ventimila posti a sedere e biglietti molto cari, sono una delle principali fonti di introiti della lega, il clima al loro interno però è molto diverso da quello dello sport europeo. «A Istanbul quando c’erano le partite di cartello di Eurolega... mi viene ancora la pelle d’oca a ripensarci. In Nba l’ambiente è molto più per famiglie, ma mi hanno detto che nei playoff cambia tutto. Magari a vedere il Fenerbache quando è tutto murato non ci porti tuo figlio di 4 anni, in Nba puoi farlo. Come giocatore è difficile iniziare a giocare ma quando inizi se sei nel sistema giusto è più facile anche perché il campo è più aperto, si va molto su e giù, poi esci da questi time out eterni di 4 minuti e magari la gente è ancora addormentata e lì qualcosa riesci a “sgarfare”».

Giocare nella lega cestistica più importante significa trovarsi di fronte i cestisti più forti del pianeta.  «Lebron è impressionante, è l’unico giocatore che mi ha dato l’impressione di avere il tasto on/off: ha scherzato per tre quarti poi ha schiacciato ON e ha vinto. A 36 anni ha un fisico incredibile ma soprattutto ha un controllo totale sulla partita. Steph Curry invece è tutto di tocco, ha una velocità di mani e una rapidità di piedi straordinarie, che sono comunque qualità fisiche anche se spesso non la si pensa così. Altri che mi hanno colpito sono Kawhi Leonard, Donovan Mitchell, fisicamente incredibile, e Khris Middleton».

New Orleans Pelicans' Nicolo Melli (20) dunks against the Los Angeles Lakers during the first half of an NBA basketball game Tuesday, Feb. 25, 2020, in Los Angeles. (AP Photo/Marcio Jose Sanchez)

Spesso fra i tifosi si discute del fatto che alcune superstar, capaci di generare centinaia di milioni di dollari di giro d’affari, siano tutelate dagli arbitri. «Io sono stato sia da una parte che dall’altra della barricata e penso sia giusto che gli arbitri abbiano un occhio di riguardo per le star, fa parte del gioco, basta non scadere nel ridicolo». 

Melli è arrivato a New Orleans nello stesso anno in cui in città è sbarcato anche Zion Williams, matricola celebrata da tutti i media americani come la futura superstar assoluta della lega. Giocatore atipico, Zion ha un fisico unico: è molto grosso e potente ma anche dotato una esplosività con pochi uguali. Di fatto sembra essere in grado di sovvertire le leggi della fisica e non è affatto chiaro come ci riesca. «Non ho la più pallida idea di come funzioni Zion, però funziona. Dovrà senz’altro avere cura del suo corpo ma è davvero una cosa diversa. Non ha fatto una stagione intera ed è già sulla copertina del videogioco, prima del Covid ovunque andavamo c’erano sempre decine di persone ad aspettarlo, è sottoposto a una pressione pazzesca. La cosa divertente è che per un periodo io e lui entravamo in campo assieme e quindi mi beccavo un boato pazzesco».

La vita americana

Il basket in America come ovunque è anche l’espressione di una cultura più ampia, che in questo caso Nicolò conosceva già per motivi famigliari. «Pur avendo la mamma americana mi piace molto il modo europeo di concepire la vita, in America c’è molta facciata e poi la sostanza diversa, può essere anche un bene – la mia non è necessariamente una critica – però in Europa è più facile che tu capisca quello che la gente pensa, qui è molto facile ricevere una risposta entusiasta poi però la prova dei fatti è tutta diversa. È tutto fantastic, amazing, però poi magari non succede quello di cui si era parlato. Comunque mi trovo bene, noi in questo ambiente viviamo in una bolla».

La quotidianità nella Nba è fatta di un numero enorme di partite (82 di regular season più i playoff) quindi i viaggi sono continui e i periodi di riposo durante la stagione molto rari.

«Ti alleni una volta al giorno di squadra, se vuoi puoi tornare in palestra il pomeriggio ma la giornata è paradossalmente più libera in America. In Europa ci si allena di squadra due volte al giorno e ci si allena la sera, qui invece di mattina e in trasferta non ci sono cene né pranzi di squadra, non si fa tutto assieme. Da un lato questo ti dà molta più libertà, dall’altra ti toglie quel senso di squadra che in Europa invece è al massimo. Se tu vuoi mangiare in camera tutta la stagione qui non c’è nessun problema. Viaggiamo sempre con dei charter privati, quindi non devi prendere voli di linea alle quattro di mattina, non devi mangiare quando mangia la squadra e questa organizzazione ti permette di giocare tante partite ad un alto livello di fisicità. Anche mentalmente finisce così per esserci meno richiesta. Qui se ho un problema con un compagno di squadra posso non vederlo per due settimane, in Europa sono obbligato a risolvere il problema perché magari con quella persona ci faccio colazione assieme ogni giorno».

È noto poi come la pallacanestro europea sia più “collettiva” di quella americana, almeno nella maggior parte dei casi. «La cultura qui è più one man show, molto più incentrata su di sé, qui uno deve realizzarsi, le opportunità ci sono, dicono che dipenda tutto da sé stessi, io non sono totalmente d’accordo, ad esempio io ho avuto molta fortuna perché se non si facevano male alcuni miei compagni non avrei incominciato a giocare».

New Orleans Pelicans forward Nicolo Melli (20) dribbles the ball past Portland Trail Blazers forward Caleb Swanigan (50) in the first half of an NBA basketball game in New Orleans, Tuesday, Feb. 11, 2020. (AP Photo/Rusty Costanza)

La Nba è anche diversa perché il giro d’affari è un multiplo molto più alto di quello delle altre principali leghe di basket e questo comporta che ogni singolo giocatore muova attorno alla sua persona milioni di dollari. «C’è una grossa differenza di concezione dell’atleta, qui è proprio un business, e poi ci sono dei background molto diversi: tanti dei miei compagni hanno patito la fame o situazioni famigliari difficili, molti compagni di squadra o avversarsi hanno genitori che sono andati in carcere, il fratello che è morto in una sparatoria… Tutte situazioni che per noi europei è difficile aver vissuto».

Una diversità che porta anche a stupirsi di cose che accadono nella quotidianità americana. «All’inizio dell’anno abbiamo avuto la riunione sulla security in cui ci hanno detto di non provare mai ad aprire lo sportello portaoggetti quando veniamo fermati in macchina dalla polizia, ovvero la prima cosa che farei in Europa, ma essendo il posto dove qui si tengono le armi la polizia può anche sparare. Io in quel momento mi sono chiesto chi è che va in giro con una pistola nel portaoggetti e perché ce lo stessero dicendo. Ho chiesto al compagno che avevo a sinistra e mi ha detto che lui teneva sempre una pistola in macchina, quello a destra aveva la pistola in macchina e tre o quattro fucili a casa, dove ha anche tre bambini piccoli. C’è proprio un abisso culturale, per me è una cosa fuori dal mondo».

Gli stipendi

Mentre i giocatori europei provengono dai club sportivi giovanili e poi professionistici, i giocatori americani provengono tutti dal sistema dei college. «Fa una grande differenza l’esperienza che fanno ancora giovanissimi nei college, loro li hanno già tutto, viaggiano con i charter privati, sono considerati delle divinità nei campus, a 16-17 anni d’età hanno delle persone che gli portano delle scarpe, per questo poi molti fanno fatica ad adattarsi alla pallacanestro in Europa». Altra questione è come gestire sensatamente stipendi generosi come quelli della Nba. «Ho compagni di squadra che non mettono mai lo stesso vestito due volte, ne ho visto uno che si è comprato una Porsche e aveva un contratto non garantito. Se sei una superstar che firma un contratto supermax (dai centocinquanta ai duecentocinquanta milioni di dollari circa, ndr) fai bene a comprarti una Bentley ma se sei al minimo non garantito…».

Questo ambiente ricco ed ultra competitivo ha come camera di compensazione il draft, un meccanismo in virtù del quale le peggiori squadre della stagione precedente possono scegliere per prime i nuovi prospetti che entrano nella Nba, riequilibrando così il campionato, tutelando i piccoli mercati delle città minori e rendendo quasi impossibili dominazioni pluri-decennnali come quelle dei grandi club del calcio europeo.

«L’approccio alla vittoria e alla sconfitta è molto diverso, ci sono squadre che mettono in conto di perdere 70 partite su 82. Noi l’anno scorso siamo partiti 0-13, la stessa cosa con Obradovic al Fenerbache sarebbe stata impossibile, allo 0-4 sarebbe successo qualcosa. Uguale con i tiri, se faccio 1 su 17 da tre in una partita, qui l’allenatore mi dice di continuare a tirare. In Europa non li facevo in tre partite tutti quei tiri».

Melli ha prodotto  e condotto “N”, un podcast dove ha raccontato in prima persona, assieme agli altri protagonisti italiani della Nba, la vita dentro la bolla anti Covid di Orlando dove si è concluso lo scorso campionato. La bolla è stato uno sforzo organizzativo incredibile e un grande successo della lega, meno chiaro è quello che succederà nel campionato alle porte. «Cercheranno di ridurre il più possibile i viaggi, ad esempio si andrà a New York per giocare contro entrambe le squadre della città e verremo testati in continuazione. Nel mio caso comunque mi limito di mio, oltretutto mia moglie è incinta per cui per me scappare da questo virus è una priorità assoluta. Nel mio caso le miei interazioni esterne saranno limitate al massimo».

Questa conversazione è tratta dal 6° Episodio di PDR- il podcast di Daniele Rielli, disponibile su YouTube, Spotify, Apple e Google Podcast.

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