Essendo una chiacchierata e non un’intervista (non potremmo mai farti questo caro Milo) lanciamo dei semi, delle zampette. Puoi farne tutto ciò che vuoi. Non specificheremo chi dei due dice cosa, quell’incubo scolastico. Ti lasciamo libero e viceversa ci dimentichiamo un po’ di noi, siamo in treno e questo ci salva da paesaggi consolidati, paesaggi a cui dobbiamo qualcosa.

P.S. Non sappiamo ancora di cosa parleremo su questo tavolo ma sappiamo già come si intitolerà il pezzo (se ci sarà, alla fine, un pezzo). Bene, si intitolerà La mosca e la bufera.

Qual è il primo sogno di cui hai ricordo, Milo? Io ricordo questa canzone che suonava da una radio portatile dentro una delle nostre tante case cambiate, salivo le scale nel sogno e mi ritrovavo nella stanza di mia sorella comunista. La canzone era un inno piratesco e formulare. Mia sorella stava architettando con degli amici svampiti e cupi un modo per far finire una guerra in corso. Col tempo del sogno, quando secoli e secondi sono alleati, mi rendevo conto che era lei l’artefice di quella guerra. La sua punta. Lei in quel gruppo anarchico e molle.

Il sogno finiva con una bomba che veniva sganciata dal gruppo. Ricordo che nel sogno nostra sorella avvisò solo i parenti più stretti che sarebbe stata proprio lei a sganciare la bomba: avvisò con un’unica frase papà, mamma, suo fratello quasi coetaneo, noi gemelli arrivati dopo. Ma all’epoca del sogno decidemmo di non sottrarci alla bomba e il sogno si interruppe con questa morte pienissima, assolutamente fragorosa e impossibile. Il volto di mia sorella mentre sganciava la bomba da neanche troppo su, gli occhi che ci guardavano severi sembrano dirci «avete scelto così e io non posso farci più niente».

De Angelis – C’è un sogno della mia infanzia che mi è rimasto impresso per sempre. Siamo nel 1960 e mi trovo in un campetto di calcio con i compagni di classe. Ed ecco che all’improvviso vediamo entrare dagli spogliatoi dei giocatori in maglia bianca.

Non parlano la nostra lingua ma ci fanno segno che vogliono giocare con noi, si presentano uno per uno, ci stringono la mano e dicono i loro nomi. E noi li ascoltiamo sbigottiti: Puscás, Di Stefano, Gento, Santamaria, insomma il Real Madrid degli anni d’oro, quello che collezionava Coppe dei Campioni! Inizia la partita.

Colpi di tacco, dribbling, rovesciate, calci d’angolo che si infilano all’incrocio dei pali, tutto un repertorio di prodezze a cui prendo parte, sorpreso di giocare così bene. Un bel sogno, non c’è che dire. Ma dopo una settimana iniziano i guai.

Decido infatti di farlo passare come un fatto reale e nel tema in classe voglio convincere tutti che quella partita è davvero avvenuta domenica 23 ottobre al campo Pirelli. «Guardate, ho ancora la gamba che mi fa male per un fallo di Francisco Gento!». Vengono chiamati i miei genitori. E qui la cosa diventa seria.

Mio padre si schiera totalmente con il Maestro e mi dà del bugiardo, mentre mia madre mi difende a spada tratta, sostiene che comunque il tema «è ben scritto», «pieno di fantasia», «originale» e altre belle frasi da madre innamorata. La disputa va avanti per giorni e giorni, diventa l’argomento di ogni cena, con posizioni sempre più contrapposte e parole violente. Potenza di un sogno e di un tema!

Come ti immagini la morte? Io penso di averla già fatta. Una cosa che ho fatto già. Nei sogni accadono le cose che ti aspettano. Per esempio il volo, pensa al volo. La sensazione misuratissima del volo. Mi spiace che, se da piccolo volavo davvero altissimo, adesso non riesco che a volare da qui a lì. Nel sogno me lo dico anche: «vedi, è meno dell’altra volta. Sei di meno. L’altra volta i tralicci li superavi, ora devi starci attento».

E allora ti chiedo, oltre a come immagini la morte, come immagini il volo. Io la morte l’ho provata in sogno e se il sogno non sbaglia, sarà come uno starnuto, esattamente un abbraccio tra il secondo prima di starnutire (bocca aperta e consapevolezza che sta arrivando) e il secondo dopo aver starnutito (il piacere grande di qualcosa che si sgonfia in pace).

De Angelis  La morte sconfigge la mia immaginazione, è una potenza così assoluta e tirannica da annientare ogni possibilità di rappresentarla, un po’ come il dio di certe religioni orientali che a volte si racchiude in una sillaba e a volte dilaga tra le costellazioni.

Ma ciò che mi affratella è il tuo discorso sul volo. Mi ha sempre turbato il legame tra il volo e la morte. Pensa a quell’atleta sovietico, negli anni Ottanta, che in un tuffo rovesciato batté la testa sulla piattaforma e si sfracellò nel suo sangue.

Pensa al folle volo di Ulisse, al pilota aereo della poesia di Yeats, al Tuffatore di Paestum che congiunge il regno dei vivi a quello dei defunti, come Orfeo. Oppure pensa all’alpinista infallibile caduto tra le rocce, la settimana scorsa, per trecento metri.

Certo, sono tante le immagini che legano la morte alla caduta. Ma mi piace immaginare anche il percorso contrario, dal basso verso l’alto, quello del saltatore che in uno stadio di atletica supera l’asticella, ci guarda, ci saluta e continua a salire, lascia a tutti noi la sua asta di carbonio e prosegue il suo volo.

Ricordi la prima poesia che hai scritto? A me di queste prime volte piacciono i dettagli e i motivi. Il dettaglio della mia prima poesia: mi frullavano questi versi in testa da parecchie ore di sollazzo al banco di scuola alberghiera, sarà stato il primo superiore.

Capita il tema di italiano e faccio di tutto per infilare quella poesia che nella mia testa era chiara, finita e rifinita. La ficco proprio in coda al tema. La prima riga non la ricordo ma continuava così «precipito in un vuoto d’aria/ forte è l’abbandono di cui mi vesto». Il suo essere tremenda all’epoca mi pareva un buon movente per scriverla.

Avevo il terrore (come adesso) di scrivere cose che mi piacessero, così come preferivo stare assieme a persone che non mi stavano simpatiche (adulti, Dio ecc.). Questo è ciò che ricordo io della prima poesia (come vedi rispondiamo anche noi per non lasciarti l’incombenza di doverlo fare in silenzio, da solo, a mo di conferenza) e chiaramente il motivo di quella prima poesia scritta su quel tema era: «professore... Dovrai dirmi qualcosa, finalmente. Finire così un tema è allarmante e da adulti: puoi capire».

Immaginavo che mi avrebbe chiamato in qualche contesto, tra una lezione e l’altra per parlare seriamente della poesia nel tema. Invece niente. Presi un voto semi-buono come sette ma non mi disse mai assolutamente nulla sulla poesia. (È capitato lo stesso con il nostro primo e unico libro di poesie pubblicate, Mia madre è un’arma. Nessuno ha detto assolutamente nulla. Coerenza, insuccesso e tenebre).

De Angelis  Non ti devi stupire di quell’antico professore. La maggior parte degli insegnanti di lettere odia i poeti, pretende la versione in prosa di tutto ciò che incontra, la traduzione interlineare della nostra vita, la parafrasi del grido. Se no, ammutolisce.

Questo l’ho capito subito e mi sono ben guardato di far leggere i miei versi a maestri e professori. Questi versi, per la verità, erano cose da poco, duravano un giorno o due e poi li buttavo nel cestino.

Mi è rimasta soltanto – chissà perché – una poesia dedicata a una ragazzina calciatrice: aveva l’accento piemontese, la maglietta bianconera, i calzettoni abbassati alla maniera di Omar Sivori e un giorno apparve come un prodigio nel cortile dell’Istituto Gonzaga, scuola maschile per eccellenza, e ci incantò con le sue finte, i suoi dribbling e soprattutto con il suo sorriso sconosciuto di fanciulla. Te la mando alla fine del nostro dialogo, se vuoi, ma non darle troppa importanza: è una cosa da nulla, una filastrocca d’occasione. ¹

Cosa cerchi in un poeta? Cosa cerchi in una poesia? E cosa credi che, da lettore di te stesso, dovresti smettere di cercare o vorresti leggere? Io leggendo le tue poesie mi sento franco e smisurato. Mi trovo a casa, ti conosco, anzi, da quella poesia ci conoscono assieme. Abbiamo fatto tanta strada là, abbiamo lasciato tracce capisci.

De Angelis  Che i miei versi ti facciano sentire “franco e smisurato”, è una bella notizia! Mi piace l’aggettivo “smisurato”. È la versione felice del suo aggettivo gemello, “sterminato”, e non contiene il sangue dello sterminio ma una grandezza che annulla ogni misura. Mi piacciono entrambi, a dire il vero, ma per continuare il nostro dialogo è meglio essere smisurati che sterminati!

Cosa cerco in un poeta o in una poesia? La poesia è un appuntamento essenziale, un incontro con il senso ultimo della nostra vita, un luogo dove si risveglia qualcosa che dormiva in una stanza segreta di noi stessi e che finalmente ci è dato conoscere e nominare attraverso le parole scritte da un altro. Cerchiamo qualcosa di profondamente nostro e ancora ignoto.

La poesia non si limita a realizzare un desiderio ma ci mostra la vera natura di quest’ultimo, ci mostra ciò che abbiamo desiderato veramente. Cerchiamo qualcosa che volevamo trovare e troviamo qualcosa che non sapevamo di volere.

Una cosa che abbiamo sempre amato delle tue poesie sono le chiusure. I saluti. La frase finale. Penso che buona parte della qualità di un poeta si capisca da come ti lascia e quando. Non riesco a fare grossi paragoni con la vita concreta (e neppure padroneggio chissà che lessico poetico) ma mi viene da pensare a un cane che, dopo essersi fatto grattare il pelo e attorno alle orecchie, decide di alzarsi e andare a mettere il suo petto sul pavimento. Insomma: ha finito. Quel momento lì.

O da ragazzini, nello shock più inaccettabile: quando ‘il padrone del pallone’ (anche questo sarebbe un buon titolo per il pezzo) riceveva palla a metà campo (c’è sempre una metà campo, che si giochi in spiaggia, in piazza, in strada), la stoppava di esterno (bene), quasi la fermava, si chinava, prendeva la palla con le mani e se ne andava. Ci fermava. Ci andava. Sparito lui sparivamo tutti. Non c’era più gara, risultato congelato con una vittoria che non faceva ridere nessuno. Era tremendo e ingiusto ma che potenza quel gesto.

Ecco, questi modi di stoppare, di farti rivedere tutto il passato con paura di tuoi errori. Un cane che prende e va, uno che torna a casa col suo pallone. Una poesia che finisce bene finisce così, con quella potenza, con quella destrezza e c’è amore, mortacci quanto amore. Penso al ragazzino che apre il cancello, butta distratto quel pallone in mezzo alle fratte e alla pompa, quel pallone che per noi era la storia.

De Angelis  Ci sono gesti che ci segnano per sempre, non c’è dubbio, interrompono il flusso naturale delle cose e ci scaraventano all’improvviso in un’altra scena. Può essere quello del “padrone del pallone”, come dicevi, il compagno che ci ruba il novantesimo minuto. Oppure può essere una creatura mai vista prima – mi è successo! – un vigile dal sorriso beffardo che arriva, si prende la palla, se ne va senza nemmeno guardarci, getta in aria i dadi della nostra partita.

Comunque sono d’accordo sul grande peso che dai all’ultimo respiro di un evento, all’ultima frase di una poesia, al suo “saluto”, come dicevi. Leopardi anche in questo era maestro. Nessuna poesia può continuare dopo avere pronunciato “l’infinita vanità del tutto”, “il naufragar mi è dolce in questo mare”, “è funesto a chi nasce il dì natale”. La poesia si conclude lì, in modo netto, definitivo, senza indugio e senza agonia. E forse è proprio questa suprema nettezza della sua fine che le consente di rinascere.

Un’altra cosa che amiamo della tua poesia sono i tuoi titoli. Penso che Tema dell’addio e Quell’andarsene nel buio dei cortili siano titoli furiosi di bellezza. Distante un padre avrei voluto inventarlo io. Quali sono i titoli (non tuoi) che ami di più?

De Angelis  Rispondo al volo con i primi titoli che mi vengono in mente, tutti novecenteschi, poiché il Novecento è il secolo dei grandi titoli. Il porto sepolto di Ungaretti, La distruzione o amore di Aleixandre; La voce a te dovuta di Salinas; Movimento e immobilità di Douve e Pietra scritta di Bonnefoy; Su fondamenti invisibili e Dottrina dell’estremo principiante di Luzi; Il seme del piangere di Caproni; Paesaggio con serpente di Fortini; Economia della paura e A tanto caro sangue di Raboni.

Ci sono libri fondamentali con un titolo non memorabile, persino dimesso, che però è “giusto” per quella determinata opera (I colloqui di Gozzano). Ci sono poi titoli suggestivi per libri minori (Moriremo guardati di Benedetti) e ci sono infine titoli penosi per libri penosi, che sono la maggioranza assoluta.

Esattamente – come scrivi? Dove scrivi? In che circostanza scrivi? Io sono abituato a scrivere poesie prima delle partite di calcio. Diciamo un’oretta prima che inizino. Scarico così la tensione del pre-partita e mi sorveglio molto poco in anni in cui tendo invece a essere molto guardia (infatti scrivo pochissime poesie e sempre meno sincere).

Scrivo sempre a penna perché è la mia misura, il mio 43 di pensiero. Scrivo su quaderni tendenzialmente consumati, pieni di altri appunti, così evito di fare troppi buoni propositi e scrivo tanto. Tu scrivi tanto o poco? Quanto scrivi durante il giorno? Un tempo scrivevo di notte. Poi è arrivato, in ordine, prima un cane e poi una donna. Ora di notte non scrivo più. Era uno sfogo, era un bicchiere e un limite, ora la notte è altro, ben altro, è facile.

De Angelis  La maggior parte dei miei libri ha visto la prima stesura su un quaderno a righe blu scuro che portavo sempre con me in giro per la città, sui tram, nei bar, nei corridoi delle scuole o nelle sale d’aspetto. Scrivo poco, con anni interi senza una pagina. Ma proprio in questi anni taciturni, si preparano a mia insaputa improvvise furie espressive, come è avvenuto l’estate scorsa, e un libro intero può nascere in poche settimane, frutto di un lungo e inquieto silenzio.

La stagione più fertile rimane l’estate, quando la città si svuota e inizio a sentire il richiamo di una parola solitaria. Mi avvicino al tavolo con il mio quaderno, comincio a riunire gli appunti e le intuizioni verbali sparse tra i fogli: sento che sono spose tra loro e devono vivere nella stessa frase. Nessuna musica di sottofondo, ma solo i suoni del traffico cittadino o le voci dei passanti. Nessuna presenza in casa, nemmeno il gatto.

Ecco alcune sante pillole che precedono un congedo. Mi piace che siano dei salti brevi, come quando – da ragazzi – si diventava stanchi e invece di tiri di collo piano si passava al pallonetto sconsolato. Sono molto curioso di vedere dove andranno i tuoi pallonetti (i miei già laterali, non hanno creato alcuno spavento manco al vento o al passante, erano pallonetti d’inerzia, fatti per riderne il secondo dopo e dire ‘vado a casa’).

Il libro di narrativa in cui vorresti vivere. La poesia in cui vorresti vivere. Il libro di narrativa che avresti voluto scrivere. La poesia che avresti voluto scrivere. E se potessi scegliere uno scrittore che scriva di te, chi sarebbe? Non voglio che tu mi dica il più bravo ma quello che più di altri riuscirebbe a scrivere di te. Quello che ti capirebbe e che scriverebbe di te con giustezza, con rigore.

De Angelis  Per la narrativa scelgo L’idiota di Dostoevskij: sarebbe emozionante camminare per San Pietroburgo con Rogòžin, Nastas’ja Filippovna e il Principe Myškin, tre personaggi meravigliosi ma anche tre archetipi dell’anima umana. E per la poesia scelgo La notte di Dino Campana: non meno emozionante sarebbe camminare con un poeta folle per le colline notturne, tra visioni, antiche città e fanciulle dalla pelle ambrata.

Aggiungo le Operette morali di Giacomo Leopardi e Due nel crepuscolo di Eugenio Montale. Ma attenzione: non sono opere che “avrei voluto scrivere”. Se le avessi scritte io, mi sarei privato della gioia di scoprirle! Post scriptum: se potessi scegliere uno scrittore capace di entrare nel mio universo, vorrei un’anima tremante e insieme lucida, inquieta nella vita ma esattissima nel giudizio sulla pagina, come Cesare Pavese, “l’uomo di carta” che aveva letto tutti i libri.

NOTE

1)   Canzoncina per una bella ala sinistra

 Aveva i calzettoni abbassati e la maglietta bianconera

 e noi restammo di stucco: una bella, una vera

 ragazza nella squadra avversaria!  Sì, una ragazza

 con i capelli a caschetto e un guizzo da velocista,

 un bel sorriso da folletto nel nostro Istituto

 maschile per eccellenza. Non era lei a farci paura,

 ma un’oscura presenza, un’eco di fiori e di sussurri,

 di unghie rosse, di spose, di veli, erano le vorticose

 onde del sangue, le minacce dell’ignoto

 che irrompeva nel cortile gesuita, era la vita!       (febbraio 1967)

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