È la notte tra il 18 e il 19 ottobre 1950, siamo ad Austerlitz, nella magnifica dimora di campagna di Steepletop. All’entrata, sopra un piedistallo di marmo, si erge il busto di Saffo, poco più in là ci sono le scale che portano al piano superiore. Sono macchiate di vino rosso e c’è un bicchiere rotto sopra un gradino: accanto, nella sua ironica tragica fine, giace senza vita Edna St. Vincent Millay – poeta eccelsa e donna fuori dagli schemi.
Edna, “la sprovveduta ragazza del Maine”, nasce a Rockland il 22 febbraio 1892; la madre, Cora Millay, le dà anche un secondo nome – St. Vincent – dall’ospedale che aveva salvato uno zio dopo un incidente in mare. La figura di Cora sarà fondamentale per Edna, da subito educata all’arte e all’indipendenza. Infatti, quando è ancora bambina, suo padre viene cacciato di casa: Cora non sopporta più né tradimenti né sperperi di denaro, e sceglie piuttosto di divorziare crescendo da sola le tre figlie – il che, nel lontano 1900, è una scelta coraggiosa e anticonformista.

Rinascita e femminismo

Edna trascorre così la sua infanzia in una famiglia strettamente affiatata di sole donne, tra i boschi e le coste del Maine: «La mia felicità! Così felice / sulla costa del Maine ero ogni giorno». Dopo diversi trasferimenti, le tre si stabiliscono a Camden, dove Edna comincia a scrivere le sue prime poesie mostrando un precocissimo talento, ferventemente sostenuto dalla madre. È così che il suo primo poemetto Renascence (Rinascita) – un viaggio immaginifico verso l’immensità – vince la prima pubblicazione in un’antologia.
Notata dalla direttrice della YWCA, ottiene una borsa di studio per frequentare il college a New York. Qui Millay sperimenta l’amore e la poesia riunendo attorno a lei una sorta di moderno tiaso saffico. La “scandalosa” Edna, restìa all’inscatolamento della società (soprattutto quella cristiana della YMCA), vive secondo una totale conformità a sé stessa, al di là delle leggi morali imposte, rendendosi dunque nota per il suo atteggiamento ribelle.

Ma non è solo l’amore tra donne che desta scandalo, la poeta infatti si unisce anche al movimento delle suffragette, che lottano per ottenere il diritto di voto. Millay si avvicina così al femminismo – oggi definito “di prima ondata” – anche grazie all’incontro con Inez Milholland, la celebre femminista che nel 1913 guidò il corteo pacifista a Washington in sella a un cavallo bianco. La rivendicazione femminista, e più in generale un nuovo modo di essere donna, confluisce in A Few Figs from Thistles (Qualche fico ai cardi) nel 1920.
In questi versi Edna mette in scena un amore diverso dalla rappresentazione comune, in cui la donna è protagonista attiva nei rapporti, tradisce spregiudicatamente («Credi ch’io sia fedele a una promessa? / Sono infedele, tranne che all’amore.»), non si lascia sopraffare dal dolore di un amore finito, ma anzi, sperimenta le relazioni anche nella loro natura più effimera e frivola («Tra breve io ti scorderò, mio caro, / perciò assapora il tuo piccolo giorno, / mese, o semestre, e godi quanto puoi; / sia che ti scordi, o ti lasci, o io muoia, / tra di noi finirà»).
È questo libro a consegnare l’ammirata Millay alla vera fama, soprattutto tra gli artisti e intellettuali del Greenwich Village, il quartiere newyorkese in cui si viveva alla bohème. Ma la poeta conquista anche gli ambienti più istituzionali: nel 1923 A Few Figs from Thistles, nella sua riedizione ampliata (The Harp-Weaver ovvero Il tessitore d’arpa) vincerà il Premio Pulitzer.

Un vortice di vita

Questi anni a New York sono di arte e di festa e trascinano Edna in un vortice di vita. La Bellezza e l’Amore confluiscono nei suoi sonetti che, seguendo meticolosamente metrica e sintassi, cantano gli epici anni Venti. Tuttavia, i problemi economici e di salute e le frequenti storie d’amore turbolente conducono Millay a riflettere sulla precarietà della vita, che aggiunge un tono aspro ai suoi versi: «così grido, e mi struggo nel timore / di ridurre a brandelli la bellezza».
Nel 1923 Edna incontra Eugene Boissevain, un commerciante olandese di caffè, rimasto vedovo di Inez Milholland. I due si innamorano perdutamente, si sposano, e due anni più tardi si trasferiscono nella nota dimora di Steepletop – una ex fattoria produttrice di frutti rossi, ristrutturata con comfort di ogni tipo. Ci basti la risposta di Edna a una giornalista per immaginare come vivessero i due: «È Eugene che si occupa di questo genere di cose. Assume domestici. Li porta in giro. Dice loro tutto quanto. […] È questo impegno per la mia casa che mi protegge dalle cose che divorano il tempo e l’interesse di una donna. Eugen e io viviamo come due scapoli. Lui, che sa liberarsi delle faccende di casa con più facilità di me, si fa carico di quella parte della nostra esistenza, e io ho da fare il mio lavoro, che è scrivere poesia».
E sarà infatti proprio a Steepletop che Millay lavorerà incessantemente ai suoi versi fino all’esaurimento. I ritmi di scrittura ai quali si spinge sono sempre più concitati: il suo vortice creativo la sta conducendo al collasso. L’emicrania è martellante, e la poeta cerca sollievo nell’alcol e nella morfina. Ad alimentare il dolore si aggiunge la morte dell’amato Eugene nel 1949. Ma Edna combatte con tenacia, tiene costantemente testa a quella «belva che mi strazia ovunque io vada»: perderà la partita per ironia della sorte, cadendo dalle scale quella notte d’autunno.
Ci è rimasto molto di Edna St. Vincent Millay: il coraggio dell’amore puro, l’anticonformismo emancipato, la totale adesione a sé stessa, e poi, quella terribile ironica consapevolezza che è impossibile sfuggire al dolore, «ma innanzi a tanta grazia e tanta forza, / come sempre nel pieno della danza, / è una vergogna credere alla morte».


Moglie-strega

(da Renascence, and other poems, 1917)


Ella non è né pallida né rosa,
e mia non sarà mai;
le sue mani, le ha prese da una favola,
la bocca, da un Valentino.
Ha più capelli, sì, del necessario;
al sole questa è per me una ferita!
È la sua voce un nastro di perle colorate,
passo che lento scivola nel mare.
Ella mi ama quanto può, i suoi modi
son quelli che discordano dai miei;
non c’è alcun uomo, no, che fa per lei,
e neanche mia sarà mai!


(Da A Few Figs from Thistles, 1920)


Credi ch’io sia fedele a una promessa?

Sono infedele, tranne che all’amore.

Se tu non fossi amabile, sarei

già fuggita a inseguire la bellezza.

Se tu non fossi ancora cibo raro

e acqua per la mia sete più aspra,

ti lascerei – ignoralo, ma è vero ! –

e come cercai te, cercherei un altro.

Ma come l’aria mobile tu sei,

e più cangianti di marea i tuoi vezzi,

perciò non è un problema l’incostanza:

non ho che da restarti sempre a fianco.

Sei così fatuo e folle, amore mio,

che quanto più tradisco son sincera.


L’agguato

(da Second April, 1921)


M’ero scordata il canto delle rane

nel silenzio di un anno – non avrei

forse dovuto avventurarmi sola

al crepuscolo in questa via deserta.
La Bellezza è in agguato. Chi si muove

fra me e quel grido di rane? Prego

la selvaggia Bellezza di aiutare

nel cammino una timida creatura

che da una casa all’altra deve andare!


La maledizione

(da The Harp-Weaver and other poems, 1923)


Spargete le mie ceneri nel vento
che soffia verso il mare. Incontrerò
magari, prima o dopo, un pescatore
poco lontano da Capri, a pescare.
Son certa che vedendomi dirà:
“Guarda che caso strano!
Una squama di pesce,
un’ala di farfalla?”.
Spargete le mie ceneri nel vento
che soffia via la nebbia. Incontrerò
un ragazzino della fattoria
che sta attraversando il pantano.
Son certa che vedendomi dirà:
“Guarda che caso strano!
Un truciolo di torba,
un’ala di farfalla?”.
Poi verso casa tua volteggerò,
densa nube sul vetro, ti vedrò
sollevare la trama del cucito
e poi di nuovo lasciarla cadere.
Son certa che vedendomi dirai:
“Guarda che caso strano!
Un petalo di prugno,
un’ala di farfalla?”.
E nessuno mi riconoscerà
di tutti quelli che mi conoscevano.
Ma all’edera che cresce alla tua porta
tenacemente avvinta resterò,
il pescatore e il piccolo villano
di me si scorderanno certamente,
ma un’acidula bacca io resterò
nel bicchiere della tua bevanda.


Da Fatal Interview, 1931


Io non ti dò il mio amore come fanno

le altre ragazze, in uno scrigno freddo

d’argento e perle, né ricco di gemme

rosse e turchesi, chiuso, senza chiave;

né in un nodo, e nemmeno in un anello

lavorato alla moda, con la scritta

‘semper fidelis’, dove si nasconde

un’insidia che ottenebra il cervello.
L’Amore a mano aperta, questo solo,

senza diademi, chiaro, inoffensivo:

come se ti portassi in un cappello

primule smosse, o mele nella gonna,

e ti chiamassi al modo dei bambini:

“Guarda che cos’ho qui! – Tutto per te”.

Fonti: E. St. V. Millay, Poesie, Crocetti, 2020. M. Currey, Grandi artiste al lavoro. Stranezze, manie e rituali quotidiani, Neri Pozza, 2020. G. de Beaumont, Tra breve io ti scorderò, mio caro. La storia di Edna St. Vincent Millay. Una poetessa nella New York dell'età del jazz, Marsilio, 2004.

NOTA – POETA O POETESSA?

In generale, spiega Vera Gheno in “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole”, i linguisti consigliano di non utilizzare il suffisso -essa, in quanto storicamente usato per designare “la moglie di”, oppure per conferire una connotazione dispregiativa. È anche vero che è rischioso intervenire sui termini che sono già pacificamente nell’uso, come poetessa, appunto. In ultimo, tra poeta o poetessa, Alba Sabatini consiglia di utilizzare poeta (accompagnato dall'articolo femminile), in quanto foneticamente legato al genere femminile sin dalla sua origine latina, e in quanto associabile per analogia ad altri nomi femminili o epiceni (es: atleta). Si veda Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987. La questione non ha una risposta univoca, importante è utilizzare queste parole consapevolmente.

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