Come riportato da tutte le cronache, si è spento, all’età di 87 anni, il filosofo Gianni Vattimo. Intellettuale a cui la cultura, non solo filosofica, italiana deve molto. Assieme a Massimo Cacciari, Emanuele Severino e, nella generazione successiva al troppo presto scomparso Franco Volpi e a Donatella Di Cesare, ha contribuito in maniera decisiva alla conoscenza di autori allora considerati tabù, come Martin Heidegger e Friedrich Nietzsche, mostrandone la coerenza con la tradizione critica della filosofia europea, sottraendoli definitivamente al filone tradizionalista e al «riduzionismo» nazista.

Oltre che accademico di fama mondiale, Vattimo fu grande divulgatore capace, privo com’era di snobismo intellettuale, di non sottrarsi nemmeno al confronto col mezzo televisivo, dove condusse una memorabile, per i cultori del genere, trasmissione di dibattito filosofico intitolate Clessidra, dove lui stesso si confrontava con le principali voci italiane del settore.

Vittorio Mathieu, gli stessi Cacciari e Severino, Carlo Sini, Caludio Magris furono solo alcuni degli ospiti del programma, che, a dimostrazione dell’approccio antidogmatico a cui resterà legato anche quando la sensibilità filosofica virerà in senso «neorealista», era esempio di pensiero dialogico che si costruiva nel dibattito.

Tra le tante implicazioni della sua opera, non sono in pochi ad aver sottolineato una contraddizione fra il suo «pensiero debole», termine coniato con Pier Aldo Rovatti capace di segnare un’intera stagione filosofica, e la sua dichiarata fede cattolica. Contraddizione, a mio modesto avviso, solo apparente. Come per il maestro del suo maestro Luigi Pareyson, Piero Martinetti, senza dubbio fra le figure filosofiche più alte dell’intero Novecento europeo, e non solo per il suo rifiuto del giuramento fascista che lo costrinse all’abbandono della cattedra nel 1931, la predicazione del Gesù contestatore della Legge sembrava rappresentare per Vattimo la vetta del pensiero critico occidentale, contro ogni forma di dogmatismo e pensiero, appunto, «forte».

Senza mai esserne consapevole, così come successe al grande Martinetti nel suo Gesù Cristo e il cristianesimo del 1934, riproponeva in questo modo il più radicato antigiudaismo cristiano, che, nel suo caso (non può che essere così nell’Europa post-Shoà) assumeva le sembianze di un radicale antisionismo. Celebri, ed ovviamente circolano in queste ore sui social network, le sue posizioni contro lo Stato ebraico.

Tanta, però, era la sua adesione agli ideali egualitari e all’attenzione verso le minoranze, che, al di là di alcuni eccessi mediatici da cui il personaggio non era esente (sorvoliamo su una sua partecipazione a La zanzara, dove cadde vittima della strategia acchiappa audience dei «ragazzacci», per usare una definizione di Corrado Formigli, Cruciani e Parenzo), sembrava sentirsi scomodo nel ruolo dell’intellettuale «antisemita», con cui, gioco forza direi, viene marchiato chiunque riproponga, attraverso la critica all’idea stessa di Stato ebraico (cosa ben diversa dal criticare politiche e governi), le antiche forme di pregiudizio che definiscono l’ebraismo una forma ci particolarismo.

Disposto al dialogo anche su questi punti, accettò, era il 2014, l’invito a presentare nella sua Università il libro di Donatella Di Cesare, Israele: Terra, ritorno, anarchia (Bollati Boringhieri, 2014), allora molto impegnata su questi temi. Al termine dell’incontro, così commentò: «L’opera della Di Cesare mi ha aperto a una nuova prospettiva, cioè valutare in termini filosofici e non politici Israele».

Che, un po’, è quello che tentiamo di fare noi tutti quando ci tocca litigare con amiche e amici spiegando loro che in questione non sono attitudini individuali, ma pregiudizi ereditati da un’antichissima tradizione mai cancellata dalla modernità.

Non dirò che queste parole saranno confermate da Vattimo negli anni successivi, ma, ai miei occhi, restano esempio di una capacità di ripensarsi rara negli ambienti accademici, dove spesso si risponde alle critiche con reazioni scomposte, inusitata aggressività e asserragliandosi ulteriormente nelle proprie posizioni.

Tanto, tra le braccia del buon Dio a cui il professor Vattimo credeva ben più di me, siamo convinti che ci sia posto per tutte le genti di buona volontà: critici e non critici che fossero. Se ne va un altro monumento della filosofia italiana, che la terra gli sia lieve.  

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