In occasione della mostra personale di Diego Marcon (classe 1985) dal titolo Dramoletti, a cura di Massimiliano Gioni e aperta fino al 30 giugno, la Fondazione Trussardi ha aperto le porte del Teatro Gerolamo di Milano. La sede non sembra certo casuale poiché si tratta di un teatro originariamente deputato a spettacoli marionettistici (e al teatro dialettale) dove generazioni di piccoli e meno piccoli milanesi andavano a vedere e ascoltare storie. Un luogo della meraviglia in cui per esempio i fratelli Colla contribuirono alla nascita di un immaginario in un’epoca in cui i bambini non disponevano dell’odierno enorme accesso alle immagini in movimento.

Questo è stato consentito poi dall’ingresso delle tv nei salotti degli italiani e ancor più tardi dai canali commerciali che, negli anni Ottanta e Novanta, hanno cresciuto la nostra generazione (di Marcon e mia) a suon di cartoni animati, fino ad assuefarci. È proprio questo credo il punto d’incontro tra il luogo e le opere di Marcon, quel terreno comune in cui, nella mente giovane, prende forma il bagaglio visivo che l’adulto, in questo caso l’artista, porterà con sé.

I tormentoni

Diego Marcon Ludwig, 2018 (still).  Video, CGI animation, color, sound. Credit: © Diego Marcon Courtesy Sadie Coles HQ, London

Sebbene le opere di Marcon possano essere lette attraverso una lunga serie di riferimenti culturali, come in molti hanno fatto, c’è un aspetto di cui nessuno sembra voler parlare se non in modo tangenziale, forse per una sorta di reticenza (o potremmo dire snobismo) che ci porta sempre a leggere l’arte solo attraverso quella che viene definita cultura alta. Il lavoro dell’artista affronta la materia cinematografica e a dimostrarlo qui è Untitled (Head falling), una serie di proiezioni di film in 16mm in cui l’artista è intervenuto incidendo e disegnando direttamente sulla pellicola. Marcon non ha mai fatto mistero del fatto che il cinema che lo interessa è quello dell’intrattenimento familiare, tra cui ci sono i cartoni animati, una questione ben evidente qui dove, per la prima volta, i suoi lavori sono esposti in gruppo.

Una volta entrati nel teatro ci troviamo davanti a Ludwig, un bambino biondo il cui volto, drammaticamente illuminato da un fiammifero, è ammantato dal buio nella stiva di una nave in un mare in tempesta. Nell’animazione digitale il ragazzino canta una nenia penetrante (composta da Federico Chiari) il cui testo, scritto dall’artista, è assai angosciante, specie in relazione alla giovanissima età del cantante.

Eppure questa scena, che si ripete in loop – Marcon non ama infatti interrompere i suoi video con titoli di testa e di coda – diventa ipnotica e chiunque si ritrova prima o poi in quel canto disperatamente esausto: «Dio come son stanco, mi sento proprio giù, vorrei tirar le cuoia e non pensarci più». Oltre alla lettura ufficiale del lavoro, che si rifà alla figura di Ludwig II di Baviera e a una serie di connessi rimandi storici, non si può non pensare ai lungometraggi Disney. Film d’animazione in cui i giovanissimi spettatori si immedesimano e vengono spesso stregati da canzoni-tormentone. In questo caso però non c’è più niente di edificante, non ci attende alcun lieto fine ma il tutto è rimestato con un’altissima dose d’inquietudine.

Ispirato dai cartoni

Diego Marcon, Il Malatino, 2017 (still) Credit: © Diego Marcon, courtesy Sadie Coles HQ, London

Al livello inferiore c’è un’altra animazione, realizzata però analogicamente. Il titolo di questo lavoro è Il malatino e mostra il volto di un altro bambino che giace in un letto, evidentemente sofferente. Difficile anche in questo caso non pensare ai cartoni animati, quelli giapponesi però con cui siamo cresciuti negli anni Novanta che ci venivano propinati per interi pomeriggi dalle tv commerciali, anche l’estetica sembra riprendere quegli stilemi. Inframmezzate dalle pubblicità di giocattoli sgargianti e desiderabili, venivano proposte storie tragiche di abbandoni, povertà e orfanezza.

Non a caso una scena piuttosto frequente, e che rimaneva molto impressa, era proprio quella di uno qualsiasi dei personaggi, ce n’era sempre uno prima o poi, agonizzante in un letto, col volto febbricitante e un fazzoletto bagnato sulla fronte (che qui però non c’è).

Non anestetizzate

All’ultimo piano l’opera più recente, presentata anche a Cannes e con successo all’ultima Biennale d’Arte di Venezia: The Parents’ Room. In questo caso il breve intreccio riguarda la storia di una famiglia sterminata da un padre che poi si toglierà a sua volta la vita. I personaggi sono interpretati da attori ma i loro volti sono coperti da maschere che li fanno sembrare dei pupazzi del tutto inespressivi, anche mentre ognuno di loro racconta, anche qui cantando, la propria tragica versione dei fatti. Quest’opera risuona più evidentemente con il luogo: nella stanza accanto, di fronte ad alcuni disegni dell’artista, sono infatti esposte alcune marionette storiche, oggetti perturbanti quanto i visi dei protagonisti del film.

È evidente che ci siano delle fonti visive che hanno segnato un momento della crescita di una generazione e che non possono essere sottovalutate. Un immaginario che qui sembra essere confluito dentro a delle opere d’arte che non ci anestetizzano, come facevano le tv per farci ingollare minutaggio pubblicitario, ma ci spaccano il cuore, facendoci uscire dal Teatro Gerolamo con la coscienza di vivere in un mondo che non è certo da favola.

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