Alla fine degli anni Novanta, in una delle prime edizioni del Salone del Gusto, Bob Noto, il famoso fotografo e gastronomo torinese, una delle figure, se non la figura più influente per la cucina d’autore italiana ed europea degli ultimi 30 anni, organizzò uno spazio che si chiamava provocatoriamente e ironicamente «Salone del disgusto».

L’idea era semplice, una sala dove era possibile fare degli assaggi gratuiti a una condizione: assaggiare qualsiasi prodotto venisse proposto.

Tra tortellini in lattina e pesci fermentati non credo ci fossero anche le birre, sebbene avrebbero certamente meritato uno spazio, in particolare quelle a fermentazione spontanea di origine belga note come gueuze e lambic.

Due tipologie che sarebbero state, invece, protagoniste un paio di edizioni del Salone del gusto dopo, in un altro momento entrato, almeno per gli appassionati, nella storia: nelle sale dedicate alle degustazioni dei grandi vini provenienti dalle più importanti maison del mondo Lorenzo Dabove e Luca Giaccone organizzarono la prima degustazione mai fatta in Italia di birre a fermentazione spontanea.

Sarà la novità, sarà la curiosità, sarà che quelli – parliamo del 2002 – erano anni meravigliosi e forse irripetibili per l’energia che Slow Food riusciva a produrre e convogliare in quello che era giustamente considerato il più significativo appuntamento del mondo dedicato al cibo, ecco, sarà quel che sarà, anche quella strana degustazione fece il sold out.

Il problema, se di problema si può parlare, è che dopo che la prima birra venne versata e raggiunse il naso dei partecipanti, mezza sala si alzò e uscì infastidita e schifata.

Lorenzo Dabove, da grande comunicatore quale è sempre stato, ne era entusiasta, Luca Giaccone forse un po’ meno, entrambi però capirono in quell’istante che una piccola scintilla era stata innescata.

Assaggio respingente

Devo dire che anche il mio primo approccio con questa particolarissima tipologia di birre provenienti per lo più da una piccola valle a sud ovest di Bruxelles, il Pajottenland, oltre che da una cantina sita nel quartiere di Anderlecht, fu traumatico e tutt’altro che entusiasmante. Anzi ricordo che appuntai sul mio quaderno «birra imbevibile, mi chiedo come possa esistere qualcuno che beve con piacere sta roba...».

Ecco, dopo vent’anni, e dopo tantissimi bicchieri di queste birre, tra coloro che amano le asperità di gueuze, lambic, framboise e kriek ci sono anche io. E non rinnego quel primo approccio, anzi.

Del resto chi si sentirebbe istintivamente attratto da una birra che tra i suoi descrittori ha «acido citrico, vomito di lattante, carte da gioco, buccia del salame, cantina, cuoio…».

Cosa è cambiato in me? Cosa mi hanno insegnato queste birre sul gusto, sul disgusto e sulla percezione di entrambi?

E perché è importante continuare a produrre e a bere (ma anche a mangiare) prodotti che inizialmente possono apparirci respingenti?

Una storia antica

Partiamo dall’inizio. Per millenni tutta la birra è stata a fermentazione spontanea.

Questo perché la scoperta del lievito e quindi il suo utilizzo consapevole sono una conquista della seconda metà dell’Ottocento.

Ciò non significa che tutte le birre prodotte prima delle scoperte di Pasteur avessero profili acidi e tendenzialmente respingenti.

Anche prima della possibilità di aggiungere il lievito desiderato nel mosto per dare avvio alla fermentazione alcolica – quel passaggio che trasforma lo zucchero in alcol e anidride carbonica – infatti, birraie e birrai avevano trovato il modo di gestire questa fase delicata: lo facevano utilizzando sempre lo stesso contenitore o recuperando una parte della birra in fermentazione (così che fosse carica di lieviti) e aggiungendola al mosto appena prodotto; in questo modo, produzione dopo produzione, si andavano selezionando i lieviti – utilizzando sempre gli stessi solo i più resistenti continuavano a lavorare – e la birra finiva per avere il profilo desiderato.

Per il lambic – la base di ogni birra a fermentazione spontanea – invece, l’inoculo (così si chiama l’aggiunta di lievito al mosto) non è operato, ma solo favorito dal birraio che pone il mosto caldo all’interno di una vasca aperta, solitamente quadrata e non troppo profonda, posta nel sottotetto del birrificio, dove è più facile gestire il flusso di aria e la temperatura.

Qui il mosto si raffredda e si infetta, termine che può apparire brutto ma è tecnicamente corretto: il forte contenuto zuccherino, infatti, attira batteri, lieviti e funghi che trovano un inatteso e ricchissimo banchetto allestito per loro.

Per la produzione di lambic, quindi, il birraio favorisce lo sviluppo di una popolazione microbica multipla che sarà alla base di quel profilo aromatico complesso e complicato che abbiamo descritto sopra.

Ciò che mi preme sottolineare è che la fermentazione spontanea è una precisa scelta tecnica tra diverse possibili e non l’unica a disposizione come si sarebbe superficialmente portati a pensare.

E la spiegazione va ricercata, secondo le ipotesi più accreditate, nel fatto che in un’epoca in cui non esistevano frigoriferi produrre birre con un profilo acido permettesse di conservarle più a lungo, soprattutto in luoghi dove il luppolo scarseggiava.

La birra è, infatti, una bevanda molto delicata, che mal sopporta il passare del tempo e che in assenza di freddo necessita per poter durare o del luppolo – un potente antiossidante e antibatterico – o di acidità.

Una domanda, tante risposte

Oggi però la tecnologia per avere a disposizione il freddo ogni qualvolta e ovunque lo desideriamo esiste e allora perché continuare a produrre birre così difficili? La risposta non è immediata e univoca.

Innanzitutto c’è una questione culturale.

Per gli abitanti del Pajottenland e per i produttori di quell’area il lambic e la gueuze – la sua versione imbottigliata e rifermentata – sono molto più di due semplici bevande, appartengono alla cultura materiale e sono un pezzo fondamentale del patrimonio di quei luoghi, tanto quanto le chiese, i dipinti, lo stile delle case e il repertorio di ricette tradizionali (che spesso prevede proprio l’utilizzo di questa bevanda).

E per questo, sebbene si tratti di birre ostiche e difficili da spiegare e da far apprezzare alle nuove generazioni, che a differenza dei loro padri e nonni possono scegliere anche altro di più immediato e contemporaneo, vengono ancora oggi prodotte secondo la tecnica tradizionale ma senza rinunciare a qualche innovazione che permetta di portarle nel futuro, vedi l’aggiunta di frutta o di uva, la luppolatura più vivace o altro.

Poi c’è una questione gustativa: non tutto ciò che inizialmente ci respinge deve essere rifiutato, anzi. Analizzare gli elementi che ci respingono spesso aiuta a comprenderli e ci permette di scoprire ciò che si trova sotto la superficie.

Nel mio caso, per esempio, ho scoperto che sotto quella iniziale sensazione di grande acidità e di puzze c’era un mondo di note di frutta matura, morbidezza, profondità gustativa, sapidità che non avevo mai trovato e ancora oggi fatico a trovare in altre bevande.

E poi c’è il ruolo del difetto e più in generale del graffio: l’industria alimentare ci ha abituato a pensare al difetto, all’increspatura, alla ruvidità come componenti sbagliate a prescindere e come tali da escludere.

Invece, le birre a fermentazione spontanea permettono di capire che anche nell’apparente errore o difetto ci può essere armonia, anzi ci spiegano che proprio un difetto, come una nota acetica o di cuoio per esempio, può dare lunghezza e tridimensionalità rendendo la bevanda unica e memorabile, altro che disgustosa.

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