Perché non ci sono state grandi artiste? Tra le prime a chiederselo cinquant’anni fa ci fu la storica dell’arte Linda Nochlin in un testo seminale, intitolato appunto Why There Have Been No Great Women Artists?, pubblicato per la prima volta nel gennaio del 1971 sulle pagine di ArtNews.

Una riflessione che, seppur con la debita distanza e consapevolezza storica, è ancora oggi di grande attualità sia perché le tematiche trattate in quel saggio travalicano i confini delle rivendicazioni femministe dell’epoca, sia perché il tema della presenza-assenza delle donne nel sistema dell’arte è tornato a essere centrale nella discussione internazionale.

Rispondere in modo esaustivo a quella domanda nel 1971 significò per Nochlin metterne in discussione i presupposti. Secondo la studiosa americana il quesito risultava mal posto e dava per assunto uno dei luoghi comuni più insidiosi e acritici della storia dell’arte: la definizione di grande artista, cioè colui che è dotato di genio, ovvero di un potere statico e quasi misterioso.

Guerrilla girls, courtesy guerillagirls.com

Per avviare la riflessione era quindi necessario sfatare questo mito, cosa che Nochlin fece dimostrando che non esiste alcuna presupposta innata genialità individuale, al contrario il talento è qualcosa che viene coltivato ed educato, matura col tempo, con lo studio e la pratica, all’interno di un contesto sociale che offre, oppure nega, esperienze e opportunità di crescita.

Così, nonostante le ricerche di molte studiose dell’epoca che effettivamente scandagliarono la storia dell’arte in cerca di omissioni e che approfondirono il lavoro di valide autrici, come Artemisia Gentileschi o Angelica Kauffmann, non si poteva sostenere che esistessero grandi artiste.

D’altra parte come avrebbe potuto esistere una donna artista incisiva al pari di Michelangelo o Van Gogh dal momento che sappiamo, per esempio, che alle donne era negato l’accesso alle accademie prima e che poi, fino alla fine dell’Ottocento, era loro interdetta la partecipazione alle lezioni di nudo (se non naturalmente come modelle)? Questo chiaramente costringeva le carriere di coloro che partivano da una condizione di svantaggio all’interno di una gabbia di possibilità ben più ristretta, che influiva sulla pratica ma anche sui soggetti.

Come sostenne allora Nochlin «Il nocciolo della questione è che, per quanto ne sappiamo noi, non vi sono state grandi artiste – sebbene ne siano esistite molte interessanti e capaci che non sono state abbastanza studiate e apprezzate – come non vi sono grandi pianisti jazz lituani o grandi tennisti eschimesi, indipendentemente da quanto noi possiamo desiderare che ve ne siano. (…) Ma in realtà la situazione, ora come una volta, e nelle arti come in un centinaio di altri campi, è sfavorevole, pesante e scoraggiante per chiunque non abbia avuto la fortuna di nascere maschio di razza bianca, preferibilmente dal ceto medio in su».

Ecco allora la straordinaria attualità dell’approccio e delle parole della Nochlin che echeggiano dal 1971 fino ai giorni nostri, perché uno dei problemi cardine, come c’insegnano i tanti movimenti odierni di lotta alle discriminazioni (con cui, non a caso, si schiera il femminismo contemporaneo), resta sociale e ha a che fare con la svantaggiosa posizione di partenza.

La situazione in Italia

Nonostante la situazione sia migliorata per le artiste negli ultimi cinquant’anni il capitolo non può ancora considerarsi chiuso. Come dimostra infatti l’inchiesta di Maura Reilly del 2015 dal titolo Taking the Measure of Sexism: Fact, Figures and Fixes e basata su dati che facevano riferimento a un arco temporale che andava dal 2007 al 2014, ancora pochi anni fa la presenza delle artiste con mostre personali nelle istituzioni più note al mondo si aggirava tra il 20 e il 30 per cento.

Se certamente da cinque anni a questa parte c’è stato un ulteriore miglioramento a livello globale perché la discussione ha portato a maggiore sensibilità e attenzione (ma questo non significa che sia ancora possibile archiviare la questione), sul piano nazionale c’è comunque ancora molto da fare. La ricerca Donne artiste in Italia. Presenza e rappresentazione, promossa nel 2018 dal dipartimento di Arti Visive della Naba e coordinata da Silvia Simoncelli, Caterina Iaquinta e Elvira Vannini, ha infatti messo in luce una situazione sconfortante.

Sebbene nell’anno 2016/17 le studentesse iscritte alle accademie fossero infatti il 67 per cento del totale, via via che si saliva la piramide della carriera professionale le percentuali della presenza delle artiste nel mercato e nel sistema museale si restringeva significativamente, arrivando per esempio a rappresentare il 19 per cento della presenza nelle mostre monografiche del 2016 in istituzioni pubbliche e private.

Mi dice Elvira Vannini (storica e critica d’arte) in proposito: «La donna è una presenza minoritaria ma non di minoranza, quindi questo è un discorso necessario che va oltre la questione delle quote rosa.

Dal report realizzato in Naba nel 2017 è emerso un dato quasi ottocentesco: gap salariale e inferiore rappresentanza nelle istituzioni, nelle gallerie e nel mercato, dall’inclusione nelle collezioni permanenti ai programmi espositivi fino ai differenziali di prezzo nelle aste. Il mondo artistico e le sue istituzioni, tanto quanto quello politico e culturale, organizza i suoi poteri a partire da una gerarchia – implicita e mai esplicitata – di una scala maschile di valutazione, da cui deriva un posto secondario, minoritario e subordinato, per il femminile».

Lo scorso anno Cristiana Collu, direttrice della Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, ha annunciato la decisione d’incrementare il numero delle opere di artiste esposte all’interno della collezione e si è iniziato a parlare della necessità d’introdurre le cosiddette “quote rosa” (spesso confondendo però i dati sull’assenza delle artiste con quelli sulla presenza di donne alle dipendenze delle istituzioni) ma non è semplicemente un problema di numeri. Non si può pensare d’indurre un cambiamento attraverso un’imposizione, questo significherebbe restare alla superficie del problema.

Quello che ci serve è un radicale cambiamento del paradigma, perseguibile solo attraverso un’azione culturale profonda. Continuare a tenere il conto delle assenze e monitorare le percentuali delle presenze ci aiuta a misurare la variazione delle dimensioni della mutazione nel corso del tempo.

È quindi necessario continuare a guardare ai numeri come fanno dagli anni Ottanta le Guerrilla Girls, collettivo di artiste femministe che agiscono in modo anonimo con volti coperti da una maschera da gorilla e che si definisce “coscienza dell’arte” contro ogni forma di sessismo e razzismo.

Farsi le domande giuste

Attraverso la loro indispensabile ricerca le Guerrilla Girls hanno dimostrato la scarsa presenza delle donne (in quanto artiste e non come soggetto-oggetto di opere maschili) all’interno delle istituzioni museali. Resta memorabile l’opera Do Women Have to be Naked to Get Into the Met. Museum? nata nel 1989 da una commissione del Public Art Fund di New York.

Questo manifesto rendeva pubbliche le sconcertanti statistiche di una ricerca che il collettivo fece all’interno del Metropolitan Museum of Art, paragonando il numero delle opere di artiste esposte a quello dei nudi femminili mostrati all’interno del museo. Il lavoro venne rifiutato dalla committenza ma il collettivo lo affisse sugli autobus che giravano per la città.

Il poster non è rimasto lingua morta poiché le Guerrilla Girls continuano ad aggiornarlo col passare degli anni (esistono anche le versioni del 2005 e del 2012) e allo stesso modo portano avanti il loro impegno per la correzione delle disuguaglianze e la cancellazione delle discriminazioni sociali. Nel 2021 questo le porterà a presentare un nuovo lavoro per l’ArtNight di Londra (anticipato da un trailer già disponibile online).

The Male Graze è il titolo di questo nuovo progetto che, giocando sul linguaggio, trasforma il concetto di sguardo maschile (male gaze) in quello del pascolare maschile (male graze) in relazione al corpo femminile. Un lavoro che è destinato a svelare i cattivi comportamenti di molti artisti nei confronti delle donne e che, come promettono le autrici, «potrebbe cambiare per sempre il modo in cui si pensa all’arte e alla storia dell’arte».

Insomma bisogna scongiurare l’ipotesi di portare avanti un’azione di facciata che finirebbe con l’appiattire la complessità del problema. Ciò di cui necessitiamo davvero è uno sguardo aperto e critico che porti, prima ancora di dare delle risposte, a farsi le domande giuste, cioè a non chiedersi se è necessario imporre le quote rosa ma piuttosto a domandarsi quali sono le dimensioni del cambiamento, anche in questo senso la lezione di Linda Nochlin, oltre a essere ancora valida, non può essere dimenticata.

 

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