La sua fotografia è stata paragonata alla pittura di Edward Hopper, al cinema di David Lynch e alla prosa di Raymond Carver. Un misto di senso di isolamento, inquietudine e surrealismo iperrealista.

Nelle sue immagini, costruite in ogni dettaglio da una troupe di decine di persone, sono comparse star del cinema come Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, Gwyneth Paltrow e Tilda Swinton.

Gregory Crewdson, nato a Brooklyn sessant’anni fa, è uno dei fotografi più acclamanti del momento: insegna al Master di fotografia dell’Università di Yale ed espone da Gagosian a New York e da White Cube a Londra.

In questi giorni presenta, nella sede torinese di Gallerie d’Italia, tre serie di opere concepite tra il 2012 e il 2022: Cathedral of the Pines, An Eclipse of Moths ed Eveningside. Quest’ultima, commissionata per l’occasione da Intesa San Paolo, dà il titolo alla mostra e Fireflies, un ciclo del 1996.

Si tratta di una trilogia in cui lo stile di Crewdson si esercita tenendo fede al suo interesse per le ambientazioni legate alla middle class e alle ambientazioni dell’America vernacolare, abbandonando però gli eccessi surrealistici e grotteschi degli inizi e concentrandosi sui luoghi di una regione particolare: quella delle cittadine rurali del Massachusetts, dove si trovava il cottage delle sue vacanze di bambino, dove è nata da sua compagna e dove ha trovato casa nel 2012 in una ex chiesa metodista.

Ritorno a Brooklyn

Ma per capire il complesso mondo di Crewdson – in cui si fondono riferimenti alla pittura, al cinema e alla letteratura – occorre, probabilmente, tornare a Brooklyn, dove il padre psicanalista riceveva i pazienti nel seminterrato di casa, proprio sotto al soggiorno.

Il fotografo racconta che vedeva le persone arrivare dalla strada ed entrare nello studio paterno, al che lui si sdraiava con l’orecchio al pavimento nel tentativo di captare i dialoghi confidenziali.

Lo ha raccontato in un dialogo con Cate Blanchett, dicendo: «Non sono mai riuscito davvero a capire che cosa si dicessero. Ma quel gesto penso sia stato determinante per me. Era il tentativo di indagare sotto la superficie della vita quotidiana in cerca di un segreto, di qualcosa di proibito, provando a crearmi un’immagine mentale di ciò che poteva essere».

Il suo primo incontro con la fotografia è al MoMA dove, a dieci anni, visita la retrospettiva di Diane Arbus. A sedici anni è il frontman degli Speedies, una band pop il cui primo singolo si intitola Let Me Take Your Photo, poi usato per una pubblicità della Hewlett Packard.

Studia fotografia a New York con Jan Groover e Laurie Simmons, due figure di spicco della scena americana degli anni Sessanta e Settanta, e poi si specializza a Yale. Il suo lavoro di tesi è una serie di ritratti di abitanti di Lee, in Massachusetts, dove i genitori lo portavano in vacanza d’estate.

La prima serie di immagini che attraggono l’attenzione della critica è Twilight, realizzata tra il 1998 e il 2002, dove si consolida quello che diventerà il suo marchio di fabbrica: fotografie di grande formato, dal sapore realista ma messe in scena con l’aiuto di una troupe cinematografica, che lo aiuta a realizzare scenografie, costumi ed effetti di luce.

Colori saturi, uso estensivo, ma sapiente, del ritocco digitale. Vengono rappresentate situazioni in interni ed esterni, con uno o due personaggi, di solito di ambientazione notturna, che si rifanno ad atmosfere del film Incontri ravvicinati del terzo tipo: fasci di luce che piovono dall’alto, alberi che crescono nel salotto sfondando il pavimento, donne che galleggiano su uno specchio in mezzo al soggiorno, una gigantesca pianta di fagioli che si leva al cielo nel cortile di casa, una miriade di farfalle colorate che escono dal capanno in giardino.

I protagonisti assistono sgomenti o impassibili. L’enigma si mescola all’inquietudine, il senso di minaccia convive con la sorpresa.

Nella serie successiva, Beneath the Roses (2002-2008), Crewdson continua a costruire le immagini con il metodo cinematografico, ma le situazioni si fanno più intime, meno bizzarre ma dense di tensione narrativa.

Meno Steven Spielberg, più Alfred Hitchcock: una donna incinta ferma sulle strisce pedonali, all’alba, unica presenza umana in una strada deserta; un uomo sotto una pioggia notturna in mezzo alla via, mentre la sua auto è accostata al marciapiede con la portiera aperta e una ventiquattrore abbandonata poco distante; una coppia in camera da letto, lui in pigiama seduto sul materasso, lei in piedi, in intimo, gli dà le spalle.

Lo stile di Crewdson sembra evolversi per piccoli gradi. Più che la tecnica, è il tema affrontato a fare la differenza. Cathedral of the Pines, ad esempio, è una riflessione sull’idea di rifugio.

A prendere spazio, qui, è la presenza del paesaggio naturale: la foresta, il fiume, la neve. An Eclipse of Moths (l’ecclissi delle falene) è realizzata a Pittsfield, la località dove Herman Mellville ha scritto parte di Moby Dick. Qui si riflette sull’America contemporanea e il suo rapporto con la propria storia e l’eredità culturale.

Gli abitanti della cittadina, per anni, erano quasi tutti impiegati della General Electric. Per uno scandalo legato all’utilizzo di una sostanza tossica, lo stabilimento fu costretto a chiudere e Pittsfield si spopolò lentamente.

Le immagini di Eveningside, invece, sono in bianco e nero richiamando le atmosfere dei film noir degli anni Quaranta e Cinquanta. Sono il ritratto, ancora più compiuto rispetto ai lavori precedenti, di una società atomizzata, psicologicamente paralizzata, allo stremo emotivo, dove il dramma è tutto interiore. Come una bomba pronta ad esplodere.

Riflessioni sulla fotografia

Ma al di là dei temi trattati, l’opera di Crewdson spinge a riflessioni sul mezzo fotografico in quanto tale. È vero: fin dalla sua invenzione la fotografia ci costringe ragionare sul suo statuto e con gli anni, e l’evoluzione delle tecnologie, gli interrogativi, anziché diradarsi, si sono infittiti.

Il primo tema è quello della “mise-en-scène”. L’artista americano, in questo senso, si inserisce in una tradizione legata ad artisti come Jeff Wall e Cindy Sherman, che dagli anni Settanta hanno iniziato a usare la fotografia non più per registrare scene di vita reale, ma per rappresentare situazioni inventante.

Più sulla scia di Wall che su quella della Sherman, Crewdson intende mettere in scena istanti di narrazioni che fondano il loro fascino nella fissità enigmatica. Ciò che colpisce della sua opera è la particolare qualità del realismo.

Se una delle conquiste della fotografia modernista era stata quella di creare opere d’arte che non tentassero di emulare i risultati della pittura, ma portassero al livello massimo le caratteristiche proprie del mezzo stesso – «Il mio intento è di realizzare fotografie che sembrino sempre più fotografie», diceva Alfred Stieglitz – Crewdson torna a una sorta di pittorialismo, non solo perché “inventa” ciò che rappresenta, ma anche perché, paradossalmente, le sue immagini finiscono per assomigliare più a un quadro iperrealista che a una fotografia.

La prima caratteristica di questo “surrealismo iperrealista” è l’affollamento di particolari che l’artista dissemina nell’immagine. Sono indizi per ipotesi di lettura dell’immagine. Citazioni (i nomi delle strade) o ammiccamenti (le targhe delle auto che portano le sue iniziali) completamente assenti in un pittore come Hopper, a cui Crewdson spesso è stato accostato.

L’altra è “il tutto a fuoco” che, in spazi ristretti come quelli di una stanza, è tecnicamente impossibile da realizzare con gli strumenti della fotografia e che è frutto di un’accurata postproduzione digitale.

Ciò che vediamo è più simile al modo in cui vediamo con i nostri occhi – che è frutto di una illusione ottica prodotta dal nostro cervello – che non a quello, molto più rudimentale, delle più sofisticate macchine fotografiche.

Un altro aspetto che allontana questo tipo di immagini dalla visione fotografica – e questa volta anche da quella dei nostri occhi – è l’utilizzo dell’illuminazione artificiale in scene di luce naturale. Le opere di Crewdson sono il risultato della combinazione di molti scatti e i protagonisti vengono ritratti separatamente, illuminandoli con fari cinematografici. Il risultato è che, spesso, la luce è incoerente rispetto al contesto.

La maestria della postproduzione fa in modo che l’effetto innaturale sia a prima vista almeno plausibile e non immediatamente riconoscibile. Se spesso capita di sentir dire di un quadro «sembra una fotografia» e di una fotografia «sembra un quadro», qui siamo di fronte a una fotografia che sembra una fotografia, ma lo è in senso assai diverso da quello inteso da Stieglitz.

Capacità narrativa

Un altro grande tema posto dall’opera di Crewdson è la capacità narrativa della fotografia. Sono diversi i nomi di grandi della letteratura a cui le sue immagini sono state accostate: Raymond Carver, John Cheever, Joyce Carol Oates, Alice Munro e altri.

È curioso il fatto che singoli scatti, che fermano un istante, siano in grado di rendere la sensazione di una “storia”, cioè uno svolgimento narrativo che si sviluppa nel tempo. Diceva Garry Winogrand: «Le fotografie sono mute, non hanno alcuna capacità narrativa. Sai com’è fatta una cosa, ma non sai cosa sta succedendo. Non sai se il cappello che viene tenuto in mano sta per essere messo in testa o è stato appena tolto».

È, paradossalmente, ciò che pensa anche Crewdson che, in un’intervista ha affermato: «Nonostante tutti i discorsi sul fatto che le mie foto siano narrazioni o che riguardino la narrazione, in realtà accade molto poco nelle immagini. Una fotografia è congelata e muta, non c’è un prima e un dopo. Non voglio che ci sia la percezione di un qualsiasi tipo di narrazione letterale. È per questo che cerco di non dare peso alla motivazione, alla trama o a qualsiasi altra cosa del genere. Voglio privilegiare il momento. In questo modo, lo spettatore è più propenso a proiettare la propria narrazione sull’immagine».

La storia, verrebbe da dire, è negli occhi di chi guarda. Nel bisogno innato di narrazione. O, detto con un’altra parola, un senso. Eppure, al di là di una certa ambientazione nella provincia americana e della sensazione di paralisi, c’è un altro tipo di relazione con la letteratura che, soprattutto nel Novecento, si è fatta meno “narrativa” rispetto al secolo precedente.

Uno scrittore come Carver, ad esempio, ma già capitava con Flannery O’Connor, non fa leva sul “plot” o sulla “fabula”. Spesso i racconti vengono troncati senza che la vicenda dei protagonisti sia portata a compimento, quasi come in una fotografia di Crewdson.

E, forse, il ragionamento andrebbe capovolto e pensare che sia la letteratura a trovare la propria forza quando è in grado di produrre immagini. Forse è inutile scomodare il “correlativo oggettivo” di T.S. Eliot, basti forse ricordare l’episodio di Cattedrale in cui Carver “fotografa” il cieco che chiede all’ospite di descrivergli come è fatta una chiesa medievale e, a fronte della sua incapacità, i due afferrano una penna e il vedente guida la mano dell’altro in un disegno sul foglio.

Una immagine indimenticabile, al di là di ciò che, nel racconto, succede prima e dopo.

Disperazione e ottimismo

C’è un ultimo aspetto che vale la pena considerare. A dispetto dell’immagine disperata che Crewdson dà della situazione umana, l’artista non si considera un pessimista. «Queste immagini sono state realizzate in piena estate, un periodo cruciale», ha spiegato l’artista nel dialogo con Cate Blanchett, riferendosi ad An Eclipse of Moths: «Il rapporto tra questi paesaggi industriali e la natura che incombe dà una certa sensazione di ansia di fondo. Ma alla fine, si tratta di rinnovamento, e credo che questo sia davvero fondamentale: la natura persiste. Penso che alla fine le fotografie offrano un senso di speranza, o di bellezza, o addirittura di redenzione».

In questa serie di opere, molto più che nelle altre, in effetti, se non si considerano le figure umane e la loro situazione di miseria materiale o spirituale, la vegetazione e i cieli atmosferici dell’alba o del crepuscolo trasmettono un inequivocabile senso di pace.

Non è un caso che il fotografo usi la parola “redenzione”, visto che la prima fotografia della serie mostra un edificio proprio con la scritta: “Redemption Center”. Eppure, c’è anche un altro aspetto che va considerato. «Se le mie foto hanno un significato, credo che sia quello di cercare di creare un legame con il mondo», ha spiegato: «In un certo senso, le vedo più ottimiste.

Anche se è chiaro che c’è un livello di tristezza e di disconnessione, credo che si tratti di tentare di creare una connessione e della quasi impossibilità di farlo. E penso che forse le figure presenti nei miei lavori siano delle controfigure del mio bisogno di creare una connessione».

È dunque una sorta di filosofia negativa, che nega per affermare. La rappresentazione di una frustrazione, per accentuare la presenza del desiderio di un bene assente.

Non è un caso, infine, che il curatore della mostra di Torino, Jean-Charles Vergne, abbia deciso di inserire anche il ciclo Fireflies, una serie di fotografie in bianco e nero di lucciole, che Crewdson ha scattato in analogico in piccolo e medio formato. Si tratta in alcuni casi di visioni di campi al crepuscolo dove si scorgono le piccole luci.

In altre immagini le lucciole sono intrappolate in una zanzariera o in un barattolo. Difficile non pensare alla polemica a distanza tra Pier Paolo Pasolini e George Didi-Huberman sulla “scomparsa delle lucciole”.

Se per il l’intellettuale italiano si tratta della metafora del genocidio culturale praticato dal nuovo fascismo della società dei consumi, per il filosofo francese non solo le piccole luci non sono scomparse, ma la loro presenza è il barlume di una positività che resiste malgrado tutto. Nelle fireflies di Crewdson si può vedere l’immagine plastica del realismo positivo di Didi-Huberman, che apre uno spiraglio alla speranza.

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