L’America può difendere l’ordine del mondo liberale che ha creato quando il suo stesso esperimento liberale è in pericolo? A più di un anno dall’insurrezione del 6 gennaio questa domanda incombe sul dibattito intorno alla politica estera americana. Per decenni gli Stati Uniti hanno condotto un progetto geopolitico esageratamente ambizioso che, nonostante tutte le imperfezioni e gli insuccessi, ha prodotto pace, prosperità e libertà senza precedenti nel mondo. Ora molti credono che l’America debba guardare a sé e pensare a salvare sé stessa.

«L’America non può promuovere la democrazia all’estero», ha scritto qualcuno dopo l’assalto al Campidoglio. «Non riesce nemmeno a proteggerla in casa». Richard Haass, decano dell’establishment della politica estera, ha convenuto che l’America dovrebbe frenare le proprie ambizioni globali finché “non avrà rimesso ordine in casa propria”. Sul finire dell’anno scorso il “summit per la democrazia” dell’amministrazione Biden è stato accolto nella derisione generale. Gli Stati Uniti, scherniti dai propagandisti cinesi, dovrebbero smettere di intromettersi nei fatti altrui e dar retta alla massima “medico, cura te stesso”.

All’interno e all’esterno

Questa idea che l’America debba ritirarsi dal mondo e curare le proprie ferite va oltre la decisione di porre fine a una frustrante “guerra perenne” in Afghanistan. Spesso implica un drastico ridimensionamento, da parte degli Stati Uniti, dei propri sforzi successivi al 1945 per proteggere un equilibrio di potere favorevole, promuovere la democrazia e i diritti umani e limitare gli stati autoritari ostili. Eppure questa ricetta, che è diventata così diffusa, fraintende sia la storia americana sia i bisogni del momento attuale e interpreta male sia la storia americana sia le esigenze del momento attuale.

Dalla fondazione dell’America la perfezione democratica non è mai stata un prerequisito per la leadership globale: gli Stati Uniti hanno plasmato il mondo anche se hanno lottato per superare i propri mali profondamente radicati. Una politica estera ambiziosa non è certo una distrazione dal rinnovamento democratico. Storicamente, la necessità di superare i rivali autoritari ha spinto l’America a diventare una versione migliore di sé stessa. E i politici più saggi d’America hanno capito da tempo che il destino della democrazia in patria è legato all’equilibrio tra il potere e le idee all’estero. Oggi come prima, un’America che permette alle forze dell’autoritarismo di dilagare finirà per abitare un mondo che non è sicuro per il liberalismo nell’America stessa.

Un futuro incerto

Il momento attuale sembra così precario perché i pilastri chiave dell’ordine antico sono sotto pressione. Dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno cercato di assicurarsi la propria libertà, prosperità e sicurezza creando un sistema internazionale più ampio in cui l’America e i paesi di impostazione simile potessero fiorire. Questo sistema, generalmente noto come ordine liberale internazionale, ha richiesto che gli Stati Uniti si caricassero di un peso straordinario. Ha portato anche dei benefici straordinari: ha impedito guerre mondiali come quelle che avevano afflitto l’inizio del ventesimo secolo, riscattando miliardi di persone dalla povertà e creando un ambiente in cui i valori democratici si potessero diffondere più ampiamente di prima. Eppure quel sistema ora è messo alla prova sia dall’esterno sia dall’interno. 

Una Cina ambiziosa e totalitaria e una Russia che ritorna vendicativa stanno espandendo la loro influenza a danno dell’America e dei suoi alleati. I modelli autoritari di governance avanzano e la democrazia si deteriora. Si dubita della competenza e dell’impegno dell’America dopo l’unilateralismo risentito della presidenza Trump e il fallimento in Afghanistan. Nel frattempo, un miscuglio malefico di polarizzazione, tribalismo e illiberalismo in aumento all’interno del paese ha gettato un’incertezza profonda sul futuro della democrazia americana. 

Ritirarsi non è una buona idea

Queste tensioni interne sono già abbastanza preoccupanti di per sé, ma hanno anche un effetto dannoso sulla politica estera. Dopo il 6 gennaio molti paesi democratici hanno iniziato a pensare che il sistema politico americano fosse guasto. Si è ridotto il prestigio morale che lubrifica l’influenza globale americana. Gli alleati si interrogano sulla prospettiva di una resurrezione di Trump e temono che l’estrema polarizzazione renderà la politica estera degli Stati Uniti ambigua negli anni a venire.

Non sorprende, quindi, che siano proliferati i consigli circa un ridimensionamento: certamente l’America dovrà fare i conti con i propri demoni prima di poter affrontare la Cina, la Russia e una miriade di altri rivali. Tuttavia, se gli Stati Uniti devono effettivamente darsi una regolata, non ne consegue che debbano condurre una ritirata geopolitica.

Arrivare a una democrazia senza difetti a casa propria non è mai stato un prerequisito per difendere un ordine favorevole all’estero. Gli Stati Uniti sono stati una grande potenza mondiale dagli inizi del Novecento; hanno avuto un’influenza globale significativa sin dalla loro creazione. Per gran parte di questa storia, la democrazia americana ha sofferto di quelle che ora considereremmo debolezze profonde e deplorevoli.

Un paese imperfetto

Nei decenni successivi all’indipendenza, l’America è stata di ispirazione per rivoluzionari e combattenti per la libertà, anche se ha tenuto in schiavitù milioni di individui. Gli Stati Uniti hanno combattuto per rendere il mondo “sicuro per la democrazia” durante la Prima guerra mondiale, in un momento in cui la maggior parte delle cittadine donne era esclusa dalla democrazia in patria. Durante la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda, l’America ha respinto le minacce totalitarie anche se la permanenza della segregazione fino alla metà degli anni Sessanta ha fatto sì che abbia vissuto largamente al di sotto dei propri ideali.

Il primato della moderna politica estera americana è quello di un paese imperfetto che difende sé stesso, e gran parte del mondo, dalle alternative veramente ripugnanti del militarismo, del fascismo e del comunismo. Come ha affermato l’intellettuale francese Raymond Aron: «Sono del tutto persuaso che per un antistalinista non si può non accettare la leadership americana».

Investire per cambiare

Questo non vuol dire che gli Stati Uniti dovrebbero accettare le disfunzioni interne, al contrario. La storia infatti mostra che le rivalità con i poteri autoritari possono essere una forza potente di automiglioramento democratico.

Negli anni Quaranta e Cinquanta i leader americani spesso temevano che una Guerra fredda lunga e intensa avrebbe danneggiato gravemente la democrazia americana. Harry Truman e Dwight Eisenhower misero in guardia rispetto al pericolo che l’America diventasse uno “stato presidio”, una società così timorosa per la propria sicurezza da distruggere le proprie libertà economiche e politiche. Non erano paranoici: il maccartismo ha mostrato un potenziale per l’autolesionismo democratico. Se da una parte la Guerra fredda ha lasciato cicatrici sull’America, dall’altra il paese ne è uscito con una democrazia più ricca e vivace perché l’aveva condotta.

La Guerra fredda ha stimolato investimenti pionieristici nell’istruzione per aiutare Washington a superare Mosca nel pensiero e nell’innovazione; il risultato è stato quello di dare all’America il sistema universitario migliore del mondo. Le preoccupazioni per la sicurezza nazionale hanno giustificato progetti trasformativi per le infrastrutture, come il sistema autostradale interstatale. La spesa per la difesa ha guidato la creazione di semiconduttori, Internet e altre tecnologie rivoluzionarie che hanno annunciato l’era digitale.

Vivere nella concorrenza

Soprattutto la Guerra fredda ha contribuito a rompere lo stallo dei diritti civili nell’America del dopoguerra. Il segretario di Stato John Foster Dulles nel 1957 lamentava che la segregazione stava «rovinando la nostra politica estera». La necessità di lustrare l’immagine dell’America ha avuto un ruolo di primo piano nell’attacco del governo federale alla segregazione e alla privazione dei diritti dei neri alla fine degli anni Cinquanta e Sessanta. Una lunga lotta contro un nemico totalitario ha costretto l’America a dimostrare che il suo sistema era davvero superiore alla concorrenza.

Questo è un buon modo di pensare al collegamento tra affari esteri e interni oggi. Iniziative che sembrano politicamente difficili – rinnovare la politica di immigrazione per attirare più lavoratori altamente qualificati, reinvestire nell’istruzione e nella ricerca di base – possono diventare più fattibili quando incombono pericoli stranieri. Progetti audaci che sono importanti di per sé – combattere la corruzione, migliorare le infrastrutture digitali e fisiche americane, progettare una politica industriale del ventunesimo secolo – assumono maggiore importanza nella concorrenza globale.

Un mondo ostile

Le sfide di Xi e Putin possono sembrare distrazioni dal rinnovamento interno. Ma gli americani se la caveranno meglio se abbracceranno ancora una volta il primo come un modo per affrontare il secondo. Infine, gli americani dovrebbero tenere a mente che la fortuna del liberalismo in patria è strettamente legata alla forza del liberalismo nel mondo. Come riconobbe Franklin Roosevelt, l’America non poteva sopravvivere come “un’isola solitaria” di democrazia “in un mondo dominato dalla filosofia della forza”.

Se i poteri autoritari aggressivi diventassero dominanti, gli Stati Uniti potrebbero anche non essere invasi. Ma sarebbero senza dubbio costretti a fare i conti con i loro nemici e potrebbero trovarsi a dover militarizzare la società per trovare sicurezza in un mondo ostile. Quando i sovietici presero possesso dell’Europa e dell’Asia, Truman dichiarò: «dovremmo cambiare il nostro modo di vivere in modo da non riconoscerlo più come americano». Se l’America smettesse di difendere un sano ordine mondiale, il risultato sarebbe il deterioramento della democrazia ovunque, compreso, alla fine, gli stessi Stati Uniti.

Ripiegarsi su di sé

Può sembrare allarmistico fare questo confronto oggi. Ma non lo è. La questione fondamentale della nostra epoca è se le società democratiche o le forze illiberali plasmeranno il ventunesimo secolo. La Cina sta cercando di dominare l’Asia nella direzione di un primato globale; la Russia sta rivedendo in modo aggressivo lo status quo europeo. Entrambi i paesi stanno sviluppando e impiegando una serie di strumenti, dalla disinformazione alla corruzione armata, che consentono loro di indebolire e dividere le società democratiche. Ed entrambi stanno minacciando di usare la coercizione e l’aggressione totale per abbattere l’ordine internazionale che ha permesso alla democrazia di prosperare dalla seconda guerra mondiale.

Se gli Stati Uniti si ripiegheranno su di sé, il mondo che dovranno affrontare quando poi torneranno a guardare all’esterno sarà un posto molto più brutto. Il ritiro americano aprirà la strada a nemici del liberalismo per guadagnare la supremazia, un risvolto che in ultima analisi non può che danneggiare gli Stati Uniti.

Niente di tutto ciò significa che Washington non debba curarsi dei limiti del suo potere, o darsi a un interventismo sfrenato che inevitabilmente consuma. Ci sono ragionevoli dibattiti su dove, con quali metodi gli Stati Uniti dovrebbero difendere al meglio i propri interessi. Eppure una delle migliori salvaguardie della democrazia, in America e nel mondo, a lungo è stata quella di preservare un ordine in cui gli autoritari aggressivi fossero ben contenuti. Il ridimensionamento può apparire una soluzione ai dilemmi interni che l’America deve affrontare. In realtà è il percorso verso una serie di problemi molto più seri.

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