Doria Shafik, Shireen Abu Akleh, Georgina Rizk, Djamila Bouherid, Haifa Zangana, Tawakkol Karman sono sconosciute per molti in occidente, ma nel mondo arabo sono rivoluzionarie che si sono battute per l’unica cosa che conta, per tutte le donne del mondo: la libertà.

Eppure sono finite nell’oblio, anche a casa loro. Perciò Randa Ghazy ha deciso di raccontarle nel suo ultimo libro La mia parola è libera, storie di donne che non hanno mai smesso di combattere (Rizzoli, maggio 2023). «Perché bisogna scrivere la nostra storia di donne arabe, spesso invece scritta dagli uomini», spiega Randa  Ghazy, giornalista e media manager per una Ong, nata a Saronno da genitori egiziani.

«Il primo capitolo del libro è dedicato a Doria Shafik, suffragette egiziana, dimenticata dalla storia non solo in Occidente ma anche in Egitto. Eppure è stata molto coraggiosa perché nel 1951 è riuscita a raggruppare 1500 donne dei due principali gruppi femministi egiziani che hanno marciato verso il parlamento per chiedere il diritto di voto. Poi Shireen Abu Akleh è una giornalista palestinese che, nel maggio 2022, ha pagato con la vita il desiderio di raccontare al mondo l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Prima di lei non esistevano molte corrispondenti donne arabe, così divenne un simbolo per molte ragazzine che non avevano altri modelli di giornalismo femminile se non le avvenenti anchorwoman di Al Jazeera. Georgina Rizk, libanese, invece è la prima Miss Universo di origine araba che si espresse a favore della libertà sessuale prematrimoniale e della liberalizzazione dei costumi. Djamila Bouherid è la Giovanna D’Arco araba, combatté negli anni ‘50 contro la colonizzazione francese dell’Algeria. Haifa Zangana, intellettuale e scrittrice irachena, si è opposta al regime di Saddam Hussein e ha lottato per la libertà degli iracheni, uomini e donne, perché spesso le lotte sono comuni. Infine, Tawakkol Karman, yemenita, è la prima donna premio Nobel per la pace del mondo arabo».

Libertà e uguaglianza

Il fil rouge che unisce queste storie è «la lotta per l’eguaglianza e la libertà, non solo il fatto di essere donne. Sono tutte eroine che hanno pagato con la vita per i loro ideali. E la loro lotta non è semplicemente per togliersi il velo. Spesso si banalizza il discorso sulla libertà delle donne e lo si riduce alla lotta contro il velo, perché è più facile per la politica strumentalizzare determinate situazioni e far leva sulla paura delle persone. Vedere una donna con il velo in un paese come l’Italia trasmette subito un senso di estraneità che spaventa alcune persone e aiuta a rafforzare la propria identità negando quella dell’altro. Ma non è un pezzo di stoffa il problema, piuttosto il colonialismo e il patriarcato».

Come queste sei rivoluzionarie, tante altre donne hanno lasciato un segno nel mondo arabo. «Vedendo le iraniane in piazza o le afghane alcuni potrebbero pensare che solo ora le donne musulmane si stanno svegliando, magari “aiutate” dalla solidarietà occidentale. Ma non è così. Ora l’Iran sta vivendo una rivoluzione davvero inedita, ma il ruolo delle donne è stato fondamentale in tanti altri momenti della storia dei paesi arabi e musulmani, come per esempio durante la “primavera araba”. Purtroppo, oggi possiamo dire che molte di quelle proteste non sono andate a buon fine, però in quei giorni si sono viste delle possibilità, una società potenzialmente diversa e le donne erano in prima fila. Le donne sono state centrali anche nella rivoluzione di piazza Tahrir, al Cairo, nel 2011; dormivano in piazza a fianco agli uomini, senza che ci fossero molestie sessuali. E nel passato, non bisogna dimenticare le donne berbere amazigh in Tunisia e Marocco».

Femminismi arabi

Quindi il «femminismo non è un’invenzione occidentale, ma parte della cultura e della lotta di tutte le donne del mondo. I femminismi sono sempre esisti anche in altri paesi. In Egitto, per esempio, erano inizialmente legati ai movimenti internazionali, poi le egiziane si resero conto che le femministe occidentali non condividevano alcune loro lotte, come quella al colonialismo, così hanno iniziato ad avvicinarsi ai movimenti delle donne asiatiche e africane. È esistito inoltre un femminismo islamico, Huda Shaarawi fu una delle pioniere in Egitto. Nel 1923, al ritorno dal congresso dell’Alleanza Mondiale Femminile, Shaarawi scese dal treno al Cairo e si tolse pubblicamente il velo».

Randa Ghazy invita ad abbandonare la nostra visione eurocentrica e a cogliere le sfumature del mondo arabo che non è monolitico. «Non esiste un solo femminismo, così come non esiste una sola lotta per la democrazia. Ci sono molteplici strati di oppressione possibile: le donne sono oppresse per il loro genere ma anche per la loro classe sociale, per la loro religione o il loro gruppo etnico di provenienza, e non lottano solo in quanto donne, ma anche e soprattutto in quanto esseri umani». L’intersezionalità è dunque ciò che caratterizza queste lotte per la dignità umana.

Conoscere l’altro

Ghazy è convinta che la maggior parte degli stereotipi e delle incomprensioni nascono quando manca la conoscenza dell’altro. Perciò si impegna a togliere i veli al mondo arabo. Appena quindicenne ha pubblicato il suo primo libro (Sognando Palestina, Fabbri, 2002), cui sono seguiti Prova a sanguinare. Quattro ragazzi, un treno, la vita (Fabbri, 2005) e Oggi forse non ammazzo nessuno. Storie minime di una giovane musulmana stranamente non terrorista (Rizzoli, 2016). Fin da piccola sfida pregiudizi, contraddizioni e ipocrisie della società italiana.

Nata a Saronno nel 1986 da genitori egiziani, Randa ricorda che a scuola era «l’unica bambina non bianca e non cattolica. Finché l’insegnante non decise di mettermi vicino a una bambina tailandese. È difficile sentirsi parte di una minoranza fin da molto piccola. Io inizialmente non avevo piena consapevolezza del colore della mia pelle finché un bambino all’asilo non mi chiese perché non fossi bianca. Tornai a casa e chiesi a mia madre: “Posso diventare bianca?”. Da quel momento in poi è stato quasi impossibile dimenticare di essere “diversa”, ma questa è stata la mia forza. Non si può generalizzare troppo, ma credo che spesso i figli di immigrati abbiano una marcia in più, la voglia di riscattare i propri genitori, di dimostrare quanto valgono».

Il padre e la madre lasciarono l’Egitto negli anni Settanta e si stabilirono a Milano. «All’epoca non c’erano molti egiziani o arabi quindi erano un po’ dei pionieri». Oggi Randa vive da dieci anni a Londra: «Non voglio descrivere un mondo roseo, ma a Londra la diversità è la normalità, mentre in Italia ci sono come due binari paralleli: nuove generazioni al passo con i temi ma purtroppo anche tante, troppe persone che credono ancora ci sia solo un modo di essere italiani. E la politica non fa passi avanti. Ad esempio in Italia ancora si discute della riforma della legge sulla cittadinanza, per cui attivisti e seconde generazioni come me si battevano anni fa. Così come non è cambiato nulla nella gestione della questione migratoria, invece che soluzioni si trovano capri espiatori, come i migranti stessi o ad esempio le organizzazioni umanitarie che cercano di salvare vite in mare».

Italiana ed egiziana, Randa oggi afferma con fierezza la sua «terza identità ibrida». In Egitto non vivrebbe, «perché non è un paese democratico. Da donna economicamente privilegiata potrei vivere bene, perché lì chi appartiene alle classi sociali più alte può condurre uno stile di vita simile a quello di molti europei. Come giornalista e autrice però non potrei esprimermi liberamente. Il nuovo regime è ancora più oppressivo di quello precedente la rivoluzione». Ma nel mondo musulmano c’è chi soffre ancora di più: «ad esempio le afghane, a cui i paesi occidentali hanno parlato di libertà e democrazia per poi abbandonarle al loro destino».

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