Sono passati due anni dal ritorno dei talebani al potere in Afghanistan. Le tragiche immagini dell’evacuazione dall’aeroporto di Kabul sono state divorate dai social; quelle che ritraevano alcuni afghani nel tentativo disperato di aggrapparsi all’ultimo aereo americano in partenza sarebbero state messe in copertina dall’Economist, che poi avrebbe titolato “Biden’s debacle”.

La sconfitta militare e politica si è concretizzata in un giorno, quella economica e sociale continua a perdurare: secondo il World Food Programme, 28,8 milioni di persone – oltre due terzi della popolazione, hanno bisogno di assistenza umanitaria; 3,2 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta; nel 30 per cento delle famiglie di cui è a capo una donna c’è almeno un bambino che è costretto a lavorare. Alla realizzazione di questa catastrofe umanitaria hanno concorso gli editti contro le donne emanati dall’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

In questi due anni, il ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio, che ha soppiantato quello degli Affari femminili ha dedicato molta attenzione all’esclusione del genere femminile dai cicli d’istruzione: le donne non possono più insegnare, alle ragazze è vietato frequentare la scuola e iscriversi all’università; un’ipoteca sul futuro del paese, che ha riportato in auge le scuole segrete, una forma di resistenza civile già praticata sotto il regime dei talebani negli anni Novanta.

Problemi burocratici

Se in Afghanistan le donne non possono più accedere ai vari gradi d’istruzione, quelle accolte in Italia incontrano grandi difficoltà nell’ottenere il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti nel proprio paese. «È un processo burocratico che andrebbe semplificato, consentendo ai rifugiati di valorizzare le loro competenze e alla società ospitante di beneficiare di personale qualificato in quei settori dove la richiesta è alta, come l’assistenza medica», spiega Livia Maurizi, programme coordinator di Nove Onlus, una tra le poche ong che continua a operare nel territorio afghano dopo l’instaurazione dell’Emirato Islamico. «Senza il riconoscimento dei titoli di studio i rifugiati potrebbero essere costretti a svolgere lavori al di sotto delle loro capacità, il che comporterebbe una perdita di potenziale anche per chi li ospita».

Tra i rifugiati arrivati in Italia durante l’evacuazione da Kabul nell’agosto 2021 c’è Madina Hassani, che ha lavorato come insegnante, poi ha iniziato a collaborare con la sede kabulina di Nove Onlus nell’ambito dei progetti dedicati alla formazione e all’imprenditoria femminile: «Insieme alle mie sorelle, sono rimasta nascosta in casa mentre i talebani occupavano la città», racconta Madina, che ha partecipato attivamente all’operazione “Fazzoletto Rosso”. «Con Nove abbiamo coordinato, tramite WhatsApp, l’espatrio di oltre 400 persone tra attivisti, giornalisti e staff della onlus. Indossavamo un fazzoletto rosso per farci riconoscere dai Carabinieri del Tuscania al gate dell’aeroporto», ricorda.

Madina ha 28 anni e all’università di Kabul aveva conseguito una laurea in scienze sociali; a Roma ha ottenuto una borsa di studio e sta frequentando un master in relazioni internazionali all’Università di Roma Tre: «Il mio obiettivo è quello di formarmi sia nel campo del diritto sia in quello dei sistemi politici. Conclusi gli studi voglio continuare a lavorare su progetti di sviluppo per donne e bambini nel mio paese», afferma con energia. E poi riflette sulla politica persecutoria dei talebani contro le donne: «Tutte quelle che ancora vivono in Afghanistan condividono la stessa sorte: non vanno a scuola, hanno perso lavoro e libertà. Spero che riusciremo a superare tutte queste difficoltà, anche grazie al sostegno delle organizzazioni internazionali e umanitarie».

La situazione nel paese

A oggi le opportunità di lasciare il paese per le donne afghane sono basse: i corridoi umanitari consentono l’espatrio solo aduna ristrettissima percentuale, mentre i ricongiungimenti famigliari, oltre ad essere processi lunghi e a volte molto costosi, sono accessibili solo a pochissime categorie di persone. Tra le quali non rientrano, per esempio, sorelle o figlie maggiorenni di rifugiate afghane in Italia.

Gli editti emanati dal ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio hanno avuto un impatto enorme anche sull’imprenditoria femminile. L’ultimo divieto è stato imposto lo scorso luglio: chiusura dei saloni di bellezza e dei centri estetici perché colpevoli di offrire servizi «proibiti dall’Islam». Le lavoratrici impiegate nel settore che hanno perso il lavoro sono 60mila, secondo i dati parziali diffusi dal ministero dell’Economia dell’Emirato Islamico. Il danno è anche sociale: saloni di bellezza e centri estetici erano spazi dove le donne afghane potevano ancora incontrarsi liberamente.

I margini sono stretti, ma le organizzazioni internazionali e umanitarie continuano a sostenere progetti d’imprenditoria femminile in settori non ancora interessati dai ban del regime. Nel corso del 2022, il World Food Programme ha finanziato dei corsi di formazione professionale e imprenditoria offerti da Nove Onlus, che hanno permesso al 53 per cento delle diplomate di trovare un lavoro o aprire una piccola attività autonoma. Tra loro c’è Meena, un’ex impiegata che ha scelto di frequentare un corso di imprenditoria; insieme a sua figlia Fatima ha avviato un piccolo laboratorio di pasticceria in casa e ha dato lavoro ad altre diciotto donne.

Uno dei pochi settori ancora aperti all’occupazione femminile è la panificazione: il prossimo settembre partirà un altro progetto della ong italiana, che avrà gli obiettivi di ridurre l’impatto dell’insicurezza alimentare tra le donne bisognose di Kabul e le loro famiglie e di fornire opportunità di sostentamento alle fornaie kabuline attraverso il recupero di due panetterie locali.

La resistenza

Rinegoziare, riprogrammare e quindi resistere. Sembrano queste le tre parole d’ordine seguite dalle ong rimaste in Afghanistan, che di fronte a ogni nuovo ban introdotto sono costrette a riadattare le loro modalità di intervento: «Lo sforzo è enorme, considerando che il divieto di assumere personale femminile è già in atto da tempo». spiega la programme coordinator di Nove Onlus Livia Maurizi, la quale aggiunge: «Escludere le donne dal settore umanitario non solo ha significato impoverire le famiglie che prima degli editti sopravvivevano grazie al salario percepito dall’operatrice, ma ha anche ostacolato l’aiuto umanitario stesso, essendo agli uomini proibito di gestire attività rivolte esclusivamente alla popolazione femminile».

Alle operatrici e agli operatori, che continuano a lavorare in un contesto simile, sembra di vivere una sorta di gioco dell’oca: ogni giorno un nuovo editto potrebbe rimettere in discussione il lavoro di settimane. Nel frattempo, le donne afghane tentano di ricostruire la loro vita dentro e fuori i confini della propria terra, condividendo l’orizzonte di vivere in un paese non più soverchiato dalla prepotenza del passato.

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