Da qualche anno ogni prima volta che metto piede in una classe, che sia la mia che mi terrò per un anno intero, una supplenza di qualche ora, un laboratorio, chiedo – per conoscere chi ho davanti, e per provare a capire qualcosa della relazione educativa, magari brevissima, che costruiremo: che rapporto avete con la scuola? È una domanda piccola, ma forse per la semplice ragione che non viene posta spesso, genera una gragnuola di reazioni, anche se il senso della risposta è sempre lo stesso, e vale per tutti: la scuola mette ansia. Un disagio che è legato soprattutto al voto, al doversi confrontare ogni giorno, ogni ora, con il dover essere valutati in modo spesso arbitrario, oggettivante, quando non punitivo e persino repressivo.

È un’ansia paradossalmente democratica – riguarda i ragazzi che studiano di più e quelli che studiano di meno, quelli che hanno la media del nove e quelli che rischiano la bocciatura – e livella al ribasso il resto dei sentimenti, delle emozioni che si provano in classe: quella che potremmo definire l’educazione al sapere viene ridotta a una sorta di stress test lungo anni da cui uscire indenni. La morsa della scuola.

È vero che si parla e si è parlato moltissimo dell’ansia dei ragazzi, di come dopo la pandemia siano aumentati i disturbi psichici, di un generale infragilimento di una generazione. Ma nella gamma delle cause di questa crisi, e quindi nel dibattito su come affrontare queste cause, la questione della valutazione non è mai considerata centrale o determinante. Chiunque invece abbia familiarità con il contesto scolastico – dai docenti ai genitori, non solo gli studenti – sa che invece tutto ruota intorno a voti, verifiche, recuperi, medie. Il registro elettronico, o meglio la app del registro elettronico è in quel piccolo novero, insieme a Instagram, Whatsapp, TikTok, che gli studenti compulsano senza pace, l’interfaccia principale del loro rapporto con la scuola: ricaricano la pagina con la media, per vedere se nel frattempo quello o quell’altro professore hanno inserito il loro ultimo voto. Questa cappa di votocentrismo non è considerata un problema per varie ragioni: in un certo senso rende opaca la crisi di credibilità di un sistema scolastico le cui questioni sono articolate e spesso complesse e gravi: la professionalità dei docenti, la corrispondenza tra i bisogni educativi e l’offerta formativa, l’aggiornamento della didattica.

I danni del votocentrismo

Ma il danno maggiore che il votocentrismo produce nella costruzione della relazione educativa e nel sistema formativo in generale è la delegittimazione dell’insegnamento e dell’apprendimento come forme di conoscenza del mondo e dell’altro.

Gli studenti sentono di essere valutati prima che visti, e al tempo stesso fanno fatica a riconoscere in sé e ovviamente a sviluppare l’interesse per lo studio, una passione autonoma per il sapere, perché questa viene schiacciata immediatamente sulla sua dimensione strumentale.

E c’è un ulteriore elemento che sottovalutiamo, rimanendo inerti o collusi con questa riproduzione dell’ansia votocentrica: stiamo venendo meno a uno dei compiti fondamentali rispetto all’educazione alla cittadinanza che dovrebbe garantire la scuola. Non stiamo insegnando a valutare.

E valutare, in modo approfondito, equo, formativo, è una delle competenze basilari per un sistema sociale sempre più complesso, i cui valori democratici e ancor più le infrastrutture democratiche sono in evidente crisi. Gli studenti sono oggetto continuo di valutazione – sentita come inadeguata se non ansiogena – e non imparano a essere soggetti di valutazione.

Non si confrontano sui criteri, sui codici, sulle finalità della valutazione stessa, finendo per dare che scontato che le regole che ci diamo per vivere e crescere insieme non siano frutto di una riflessione ma un sistema di procedure a cui aderire acriticamente. Per fortuna la scuola è un corpo plastico, e invertire certi processi di ossificazione può bastare una comune buona volontà.

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