Negli anni Settanta una parte della critica letteraria annunciava la “morte dell’autore”. Prendendo infatti in prestito il titolo di un famoso saggio di Roland Barthes, la critica di stampo strutturalista, interessata in maniera decisiva agli aspetti formali dell’opera, si opponeva a quei metodi di analisi che consideravano la biografia dell’autore come elemento fondamentale per la comprensione del testo, sancendone, appunto, la scomparsa.

Non esiste quindi l’autore, esiste solo il testo, “eternamente scritto qui e ora” come annota Barthes.

L’abisso

Ma se lo strutturalismo porterà a un punto estremo questo particolare sguardo sulle opere letterarie, queste riflessioni avevano già trovato prima il loro spazio, come testimonia per esempio l’opera di Marcel Proust che funziona da innesco e palinsesto della Ricerca del tempo perduto, il saggio narrativo Contro Sainte-Beuve.

Il critico Charles Augustine de Sainte Beuve era infatti convinto che non si potesse comprendere un’opera senza lo studio dell’autore che l’ha prodotta e che quindi fosse necessario sapere tutto della sua vita perché non esiste separazione tra autore e opera.

Proust scriverà, invece, che «un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri visi» e che esiste un «abisso» tra lo scrittore e i suoi libri.

Dello stesso avviso è anche Gustave Flaubert quando scrive che «l’artista deve fare in modo che la posterità creda ch’egli non abbia vissuto» sottolineando proprio come a parlare debba essere solo ed esclusivamente l’opera.

La scomparsa di Kundera

Oggi per la critica letteraria analizzare un’opera prescindendo dalla biografia dell’autore non è una pratica molto diffusa: da un lato, infatti, gli aspetti materiali e quotidiani della vita di un artista vengono messi in campo per l’interpretazione dell’opera e, dall’altro, l’esposizione mediatica degli autori è un viatico più semplice e immediato per giungere al pubblico.

Eppure esistono dei casi che corrono in direzione diametralmente opposta, segno della possibilità di un percorso diverso tra autore, opera e pubblico e banco di prova eccezionale per lettori e critici.

Milan Kundera per esempio ama citare la frase di Flaubert sull’invisibilità dell’autore ed è lui stesso testimonianza vivente della possibilità di essere presente nel discorso critico e tra il pubblico solo attraverso la propria opera.

L’autore di libri straordinari e celebri in tutto il mondo, come L’insostenibile leggerezza dell’essere o Lo scherzo, ha provato a scomparire, a cancellarsi dal reale, parlando solo attraverso la sua opera dopo il rifiuto, quasi quarant’anni fa, di apparire e di rilasciare interviste dal vivo.

«Milan Kundera è nato in Cecoslovacchia. Nel 1975 si trasferisce in Francia» sono le uniche note biografiche concesse ai suoi editori, lui che nel suo I testamenti traditi, con un dialogo esemplare, ha espresso bene la sua scaltrezza: «”Lei è comunista, signor Kundera?”. “No, sono un romanziere”. “È un dissidente?”. “No, sono un romanziere”. “È di sinistra o di destra?”. “Né l’uno, né l’altro. Sono un romanziere”».

Elitàr I

Elitàr I è il nome con cui Kundera figura nei registri della polizia segreta cecoslovacca che spiò la vita dello scrittore prima del suo trasferimento a Parigi e questo nome, di nuovo segreto travestimento, stavolta involontario, dello scrittore, figura nel titolo del libro della giornalista francese Ariane Chemin (Nome in codice: Elitàr I, tradotto da Francesco Maselli per NR edizioni) che muovendosi tra i luoghi della vita dello scrittore e tra le donne e gli uomini (compositori, spie, intellettuali e amici) che ne hanno costellato l’esistenza prova a comprendere il suo  progetto di sparizione dalla scena pubblica.

Ma ciò che emerge tra le pieghe di questa ricerca puntuale e appassionata è, ancora una volta, l’opera di Kundera, il suo estremo piacere nel raccontare e il poco interesse per l’intimità della vita, sempre fedele alla sua idea che «imporre il proprio io agli altri è la versione più grottesca della volontà di potenza».

Non è un paese per autori

Un discorso simile vale per un altro grande scrittore della contemporaneità, considerato dal critico americano Harold Bloom come l’erede di Shakespeare, l’americano Cormac McCarthy che, dopo 16 anni dal precedente romanzo La strada, torna in libreria con un dittico di narrazioni, Il passeggero (pubblicato adesso da Einaudi con la traduzione di Maurizia Balmelli) e Stella maris (che uscirà in traduzione a settembre).

Seppure in maniera più leggera rispetto a un grande maestro della narrativa americana come Thomas Pynchon, anche l’autore di Non è un paese per vecchi, la cui trasposizione cinematografica dei fratelli Coen ha certo fatto conoscere la sua opera a un pubblico molto più vasto, non è un habitué del mondo letterario né un frequentatore di situazioni mondane, preferendo piuttosto parlare attraverso la sua opera.

Certo è che leggendo Il passeggero, la densità del dettato e la stratificazione degli argomenti portano il lettore a concentrarsi in maniera assoluta su ciò che viene veicolato dalla scrittura e a ignorare tutto ciò che potrebbe muoversi fuori da essa.

Il libro è incentrato su Bobby Western, sommozzatore che ritrova sott’acqua il relitto di un aereo dove misteriosamente manca un passeggero, e sulla sua ricerca della verità. Ma alla sua vicenda sono alternati capitoli dedicati alla sorella amata, che si è tolta la vita nel giorno di Natale, e al suo delirio schizofrenico, che si popola di personaggi che abitano solo nella sua mente.

La riflessione sul linguaggio di McCarthy, che pare avvicinarlo agli esperimenti più arditi del secolo precedente, le declinazioni dell’amore, le sue pieghe più patologiche e, soprattutto, una riflessione ultima sulle domande senza risposta che dall’antichità affollano la mente dell’uomo (Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andremo?) rendono questo libro la prova plastica di come la letteratura possa avvicinare i luoghi più reconditi dell’esistenza, ma ne fanno anche una convincente testimonianza di come potenzialmente una grande opera possa vivere senza il suo autore.

Scrittore-lettore

Tornando al versante della critica, ci si potrebbe dunque chiedere quale debba essere l’atteggiamento di chi si approccia ai testi e quanto possa essere aderente al modo in cui si leggono i libri oggi impostare un percorso critico in grado di ignorare ciò che esula dal testo, prima di tutto la vita dell’autore.

Ma la domanda forse più interessante riguarda piuttosto la possibilità che ha il critico, come il narratore, di scomparire, caricandosi del compito di far parlare il testo. Assume da questo punto di vista un valore rivelatorio, oltre che messa in prova di metodo, la raccolta di saggi del critico letterario Cesare Garboli Scritti servili (adesso ripubblicati da minimum fax dopo decenni di assenza dalle librerie e dedicati, tra gli altri, alla vita e al teatro di Molière, al “destino di autodistruzione ilare e buffonesco, ma anche così tragico di Delfini” o a Natalia Ginzburg ed Elsa Morante) dove l’autore mostra il carattere appunto “servile” della sua  scrittura che si concretizza nel mestiere di “scrittore-lettore” di cui parla nell’Avvertenza, un testo breve ma sicuramente decisivo per intendere un certo modo di fare critica: «Esistono, secondo me, gli scrittori-scrittori e gli scrittori-lettori. Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo».

Garboli si sentiva “scrittore-lettore”, rivestendo dunque il ruolo del critico dell’importante compito di andare a “prendere” le parole e “riportarle a casa”, cioè sulla pagina, provando a donarle all’universo a cui appartengono e stimolando i lettori. 

Ecco, forse questo, più che unire i punti che inesorabilmente legano la vita e l’opera di uno scrittore, è il compito che la critica deve provare a mantenere.

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