Sono passati sedici anni da quando è uscito La strada. Sedici anni durante i quali Cormac McCarthy è stato lontano: dalle interviste, dalle apparizioni pubbliche, dalla mondanità letteraria. Ma non ha vissuto in eremitaggio, non si è ritirato, anzi, ha studiato e ha approfondito; ha cercato di capire confrontandosi costantemente con quelle che riteneva essere menti geniali. Ha frequentato filosofi e fisici, ha esplorato teorie e seguito lezioni. È cresciuto ancora; affacciandosi agli ottant’anni, attraversandoli e arrivando in fondo al decennio ha raggiunto una nuova maturità, piena zeppa di nuovo sapere. Ha raffinato ulteriormente la lingua e ha imboccato una nuova direzione nella sua scrittura, con l’impazienza di chi non sa in che acque si sta immergendo, né se tornerà a galla.

Il passeggero (pubblicato da Einaudi per la traduzione di Maurizia Balmelli) è solo la metà di un’opera. A completarla è Stella Maris, che uscirà il prossimo settembre. Sono libri gemelli che raccontano le due vite parallele di un fratello e di una sorella viste da due prospettive diverse. Vite incatenate, mutualmente codipendenti, che hanno molti aspetti in comune con quella, per lunghi tratti misteriosa, del loro autore.

La storia

Bobby e Alicia Western sono originari del Tennessee. Lei è un genio matematico, lui no. Sono innamorati l’uno dell’altra e vivono nel tormento di questa unione impossibile e del ricordo di un padre, altrettanto geniale, che ha contribuito all’invenzione della bomba atomica. Uno Yankee trasferito al sud implicato in esperimenti potenzialmente distruttivi: quel tipo di esperimenti che nelle premesse per La strada hanno portato all’annientamento del genere umano. Qualcosa che ha oppresso la mente di McCarthy per tutta la sua scrittura, tenendolo sempre sull’orlo di un’aperta confessione che non sembra destinata mai ad arrivare ma che in qualche modo ha punteggiato tutta la sua opera letteraria di biografia e ossessione.

Charles, il padre di Cormac, veniva dal Rhode Island e in Tennessee lavorava come avvocato per una compagnia elettrica statale che tra gli anni Quaranta e Cinquanta contribuì alla sperimentazione nucleare nel deserto. Probabilmente è per questo, l’essere esposto all’evidenza della distruttività e dell’inevitabile colpevolezza di tutti i coinvolti indipendentemente da chi materialmente aziona l’ordigno, che il tema della fine di tutto e dell’ineluttabilità del destino torna così spesso nel corso di tutta la sua produzione e in Il passeggero e Stella Maris si fa motore silenzioso e letale di tutta la vicenda. Il tormento di Bobby e Alicia, così come quello di Cormac, è lo stesso espresso dal dolore di Robert Oppenheimer quando, troppo tardi, ha detto: «Se solo avessi saputo»; ma accentuato dal fatto di sapere, in effetti, di avere i mezzi e l’intelligenza straordinaria per capire, e di non poter più fare niente per impedire la distruzione.

La trama del romanzo si perde in secondo piano dietro a un dedalo di ragionamenti logici e tentativi matematici di arrivare alla soluzione di un mistero non troppo accattivante: il ritrovamento da parte di Bobby, che di professione fa il sommozzatore, di un aereo sommerso al quale manca un passeggero e il coinvolgimento di una sinistra agenzia di spionaggio.

In primo piano c’è il suo dolore, il suo straniamento, il continuo tornare ad Alicia, nel frattempo morta suicida dopo un lungo periodo di internamento in un ospedale psichiatrico in preda alle allucinazioni indotte dalla schizofrenia. Situazione alla quale il lettore è ricondotto di continuo, in un’alternanza di digressioni temporali che rimandano agli ultimi giorni di Alicia e che si incastrano con perfezione meccanica al loro corrispondente speculare in Stella Maris.

Una lingua nuova

Ma più di tutto in primo piano c’è la scrittura di McCarthy. Quel fine prodotto di ricerca sperimentale che a ogni nuovo romanzo ricompare imprevedibilmente raffinata.

Se è vero che ha passato gli ultimi sedici anni dividendosi tra la stesura dei due nuovi romanzi e la frequentazione degli ambienti matematici del Santa Fe Institute – un istituto di ricerca fisica nel quale è coinvolto come membro del consiglio accademico – questo lo ha nutrito di una linfa energizzante che, oltre a dargli materiale per caratterizzare i suoi personaggi in maniera credibile e approfondita, gli deve aver restituito il gusto per la sperimentazione letteraria.

La lingua di Il passeggero è qualcosa di nuovo, diverso: più semplice e diretta rispetto alle opere passate, ma in qualche modo evidentemente misurata, calcolata, nella quale nessun segno di punteggiatura è lasciato al caso ma si ha il sospetto che ogni minimo particolare, ogni fluttuazione della voce, abbia un significato a sé stante. «Per ogni accento che manca, sembra esserci un pensiero di giorni», come scriveva John Jeremiah Sullivan sul New York Times.

La strada meno battuta

McCarty è cambiato, ma non all’improvviso, e a 89 anni non è un fatto così scontato. 

È perlomeno la quarta volta che, di fronte a un bivio, prende la strada meno battuta. Da Il guardiano del frutteto, pubblicato per la prima volta nel 1965, a Suttree, uscito nel 1979, le sue ambientazioni sono rimaste legate a ciò in cui era cresciuto: il Tennessee, l’Appalachia. Con Meridiano di sangue, del 1985 e considerato da molti il suo capolavoro, ha intrapreso l’avventura western, poi consacrata nella Trilogia della frontiera, tre romanzi incatenati usciti tra il 1992 e il 1998. A quel punto, per i lettori e per i critici, era nel posto giusto. Non per lui. Il percorso fino a lì era stato diretto e ben cadenzato, un libro ogni sei o sette anni, un’evoluzione costante, un’esplorazione programmata e ben equilibrata. Ma non era stato privo di scossoni, ribaltamenti e false piste. Le idee gli venivano mentre stava scrivendo altro e i personaggi prendevano vita accavallandosi tra di loro. Spesso si era trovato ad abbandonare un lavoro in preda alla frustrazione di non riuscire a finire una storia perché attratto da una nuova linea narrativa; spesso era stato sul punto di lasciar perdere, di chiudere il conto e abbandonare la via delle parole.

Il silenzio che dal 1998 ha portato al 2005 è stato diverso rispetto a quello che ha caratterizzato le pause precedenti. Un silenzio sospeso, di attesa, di rivoluzione. Non è un paese per vecchi ha chiuso, in qualche modo, la linea western, già preludendo a una svolta. Il romanzo inizia con la lettera minuscola e finisce senza un punto fermo: è il male, che non ha un inizio e non ha una fine, e che si fissa eternamente alla pagina sotto forma di punteggiatura – o della mancanza di essa. La strada è venuto solo un anno dopo, ma per formularlo ce ne sono voluti molti di più. Ha rappresentato un punto di rottura, il terzo e più netto, prima d’ora.

McCarthy ha cominciato a scrivere Il passeggero negli anni Settanta, durante quell’intricato arzigogolo di storie e personaggi che nascevano e morivano; di piste che non portavano da nessuna parte; di tentazioni di legarsi a generi che lo stufavano dopo poco tempo. Ciclicamente la notizia della pubblicazione emergeva, ma poi andava a perdersi nella nebbia dell’imperscrutabilità dell’autore, lasciando con il sospetto che questo romanzo in particolare sarebbe passato alla storia come un grande incompiuto. E invece eccolo: semplice e sorprendentemente sincero. Molto più rivelatore di qualsiasi altra sua opera, a saper leggere tra le righe. 

Il fisico teorico Richard Feynman, che non a caso è stato uno dei pilastri del progetto Manhattan, lo stesso nel quale è coinvolto il padre di Bobby e Alicia, ha detto: «Non esistono conseguenze dirette tra gli eventi, ma innumerevoli inneschi che portano a innumerevoli conclusioni per la casualità delle loro interazioni». Così niente è riconducibile a niente in particolare, ma ogni evento è figlio di tutti quelli che lo hanno preceduto, non importa quanto distanti nello spazio e nel tempo e quanto apparentemente dissociati tra loro.

McCarthy è tornato con due romanzi che, pur non dandolo a vedere, parlano di lui più di qualsiasi altro abbia mai scritto. Non sono un testamento, ma la testimonianza di un’esistenza. Non sono una conclusione, perché la sua storia finisce senza un punto fermo.  


Il passeggero (Einaudi 2023, pp. 392, euro 21) è l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy

© Riproduzione riservata