«Aiutami a realizzare qualcosa, nel mio lavoro, che sia più che naturale-aiutami, con questo, ad amare e sopportare il mio lavoro. Se devo faticare per questo, caro Dio, lascia che sia al Tuo servizio. Mi piacerebbe essere santa in modo intelligente». Era malata di lupus, Flannery O’ Connor, quando scriveva queste parole. Il padre era morto della stessa malattia. Quando le diagnosticarono il lupus eritematoso cronico aveva venticinque anni. Secondo i medici, la sua aspettativa di vita era di appena un lustro. Di anni ne visse altri quattordici, guadagnandosi il soprannome di Lupus warrior la guerriera del lupus.

Quando si parla di lei e della sua scrittura è difficile scindere l’autrice dall’opera. Nella sua lingua c’è tutto il suo tempo, la cultura del sud rurale degli Stati Uniti in cui la scrittrice viveva e che alimentava la sua ispirazione. La lingua è specchio della cultura e dei tempi, un organismo vivo che muta al mutare degli eventi. Nel periodo in cui scriveva, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del secolo scorso, la parola negro era di uso comune. La usa spesso nei suoi romanzi – ne scrisse solo due Il cielo è dei violenti e La saggezza del sangue – e nei suoi racconti, pietre miliari della letteratura, tuttora materia di studio nei corsi di scrittura di ogni parte del mondo.

Tragedia

La vita dell’autrice è permeata di tragedia: la tragedia della sua terra, un dramma sociale e politico che si protrarrà fino ai giorni nostri e di cui il movimento Black Lives Matter è simbolo poderoso, e la tragedia del suo destino. C’è, per chiunque si avvicini alla lettura delle sue opere, e in misura ancora maggiore per chi le sue opere le traduce, la sensazione nitida che la scrittura di O’ Connor sia composta di numerosi strati – o meglio, registri stilistici – i più invisibili dei quali sono anche quelli che sparigliano le carte.

Malgrado la tragedia che incalza ogni giorno della sua vita, interiore e pubblica, la scrittrice è maestra d’ironia. A sei anni insegna a un pollo a camminare all’indietro: la sua impresa venne immortalata dai giornali del tempo. Parlando di sé, più tardi, dichiarò: «C'ero anch'io con il pollo. Ero là solo per assisterlo, ma fu il momento culminante della mia vita. Tutto quello che è accaduto dopo, è stata solo una anticlimax». La malattia che la accompagnò sin dalla giovane età, inizialmente diagnosticata come artrite, non le impedì di gestire con abilità il registro ironico persino nei più drammatici dei suoi racconti. Proprio il contrasto tra il contenuto e la forma rende la sua scrittura una delle più dense da penetrare.

I racconti e i romanzi restituiscono una realtà solo apparentemente semplice, ma nella sostanza malvagia e complessa. Lo sguardo della scrittrice è impietoso, lucido, asciutto: il suo vangelo laico ha per protagonista la Natura. La «macchina da scrivere di Dio», come la stessa Flannery amava definire sé stessa, non risparmia particolari, centellinando aggettivi, azzerando quasi del tutto la presenza di avverbi, aumentando la sinestesia narrativa con l’accrescersi delle note tragiche.

Violenza ben nascosta

Nei suoi racconti zampilla costante una violenza ben nascosta, e proprio per questo potentissima, in particolare in Un brav’uomo è difficile da trovare che dà il titolo alla raccolta, ma in larga parte anche in Brava gente di campagna, La vita che salvi potrebbe essere la tua e, infine, ne Il profugo, affresco memorabile e feroce di una realtà profondamente attuale, con un incipit dal sapore quasi distopico.

Lo stile con cui parla ai lettori è di modernità impareggiabile: il realismo dei dettagli, delle movenze, delle routine linguistiche costruiscono una prosa complessa da restituire nella lingua d’arrivo, tanto è preziosa la somma delle parti. I personaggi sono tratteggiati con la gravità di un cielo opprimente. Il parallelismo non è casuale: come accennato in precedenza, la Natura è la vera, sola protagonista del vangelo laico dell’autrice. È nella natura che la sinestesia raggiunge il suo apice. È la natura del sud rurale, il caldo, gli insetti, i negri che continuano a essere schiavi e poveri anche dopo essere stati apparentemente liberati. Negri li chiamava anche O’ Connor, accusata di razzismo, perché negro era la parola che definiva uno status. Ma nei racconti, il termine, oggi usato in senso dispregiativo, strizza l’occhio al lettore: se è vero che la lingua non è iconica, e che le parole sono una convenzione, allora per lei negro non rappresenta una razza inferiore e disumana, bensì la saggezza e lo sguardo sornione che osserva e riesce a resistere, perché conosce la vita. La scelta, anche nella nuova traduzione, di utilizzare il termine originale è motivata proprio da queste riflessioni.

Del resto, lei stessa fa differenza tra colored, black e negro. Ne Il profugo, i negri spiccano per la loro arguzia: non sono più vittime, ma l’unica vera anima di un luogo che sa rinascere dalle sue ceneri. Non saranno i negri a soccombere, non è su di loro che ruota la tragedia. Sembrano personaggi secondari, e invece sono i pilastri di una terra in cerca di salvezza. Nei racconti contenuti in questa raccolta, non sono quasi mai i negri ad agire il Male e a subirlo. Va detto, è il Male il solo motore di questa scrittura, perché è attraverso il Male che si raggiunge la Grazia, convinzione testimoniata in ogni declinazione della sua scrittura, nei racconti e nei romanzi.

Il Male è la Natura: nemica, scabrosa; una Natura intensa in senso stretto che s’intreccia con la Natura umana: inscindibili. Sopra questo mondo tragico e dolente si adagia il velo della scrittura di O’ Connor, forte del realismo scarno che le è proprio, e che costituisce il primo livello della narrazione. Il secondo è, al contrario, il sottotesto intriso di violenza contro cui veniamo ammoniti, mentre il terzo livello racconta la storia del Male. Vivere nel sud rurale degli Stati Uniti, da cattolica ortodossa, tra protestanti che rasentavano il fanatismo, non è stato semplice, ma di certo è stato oggetto di ispirazione.

Redenzione

In Un brav’uomo è difficile da trovare – uno dei racconti più belli mai scritti nella storia della letteratura, insieme a I morti di James Joyce – il ruolo della lingua come elemento straniante raggiunge il culmine. Al pari di una lectio magistralis sullo scollamento tra significante e significato, tra forma e sostanza, Il Balordo, assassino evaso dal carcere, parla di Dio a una signora ciarliera che spera di redimerlo con le sue chiacchiere. «Dio non ha mai creato una donna migliore di mia madre e mio padre aveva un cuore d’oro zecchino». […] «Non c’è l’ombra di una nuvola in cielo», commentò, alzando gli occhi. «Il sole non si vede, ma non si vede nemmeno l’ombra di una nuvola». In poche righe è racchiusa tutta la poetica della scrittrice georgiana: Dio, la Natura, il Male. Il racconto, scritto nel 1953, dà il titolo alla raccolta (A Good Man Is Hard To Find and Other Stories) pubblicata per la prima volta nel 1955.

In Brava gente di campagna, il giovane straniero che si presenta alla porta di Mrs Hopewell vende bibbie: toccherà alla figlia di Mrs Hopewell (letteralmente “Sperabene”) fare i conti con la crudeltà di questo sconosciuto. «Lo scrittore di narrativa deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con la compassione, l'emozione con l'emozione, o i pensieri con i pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore».

In questo continuo meccanismo di velamento risiede tutta la forza e la complessità delle storie dell’autrice di Savannah: tradurre la sua prosa equivale a osservare in profondità, sotto il velo delle parole, il Male del mondo, e a restituire ai lettori il percorso verso la Grazia che, per Flannery O’ Connor più che per chiunque altro, coincideva con la scrittura.


Gaja Cenciarelli ha tradotto la raccolta Un brav’uomo è difficile da trovare, pubblicata da Minimum Fax nell’aprile scorso

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