Ho ripreso servizio nel mio vecchio ufficio. Immaginavo che aprendo la porta mi sarebbe caduta addosso una catasta di faldoni e pratiche inevase, tutto quello che si era accumulato mentre ero assente. Ma ero contento di ricominciare. La vita del sindacalista è movimentata. O almeno, la mia lo è. Il decreto legislativo 81/08, Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, prevede che io faccia ispezioni nei cantieri, nelle fabbriche, nei posti a rischio, per verificare che i lavoratori non mettano a repentaglio la loro vita. Così il mio tempo lo passo in ufficio solo per ricevere reclami e denunce; poi vado di persona a fare i sopralluoghi.

Sono uscito dall’ascensore e ho fatto qualche passo, ma mi hanno bloccato subito. La sala d’attesa era già piena. Mi è venuto incontro un gruppetto di persone, per lo più adolescenti. Uno di loro spingeva un uomo seduto in sedia a rotelle.

«Chi siete?», ho domandato.

«Personaggi di un romanzo», mi hanno risposto in coro.

«Di nuovo?», ho detto facendo un passo indietro. «Ma com’è che venite da me?»

«Si è sparsa la voce. Vorremmo che venissi a vedere in che condizioni lavoriamo».

«Mi spiace, non posso ricevervi adesso. Nei romanzi ci vado solo per fare ispezioni extra», ho fatto notare. «Prima ho un sacco di arretrati da smaltire».

«Ma qui c’è proprio un caso che ti riguarda!», hanno protestato, indicando l’uomo in sedia a rotelle. «Questo muratore è ridotto così perché è caduto da un’impalcatura, in un cantiere illegale, senza contratto né assicurazione».

Ho promesso che prima o poi mi sarei occupato del caso.

«Allora comincia a studiare le carte», mi hanno detto dandomi una copia di un libro.

Editor, cura te ipsam

Si intitola L’acqua del lago non è mai dolce, lo ha scritto Giulia Caminito. A casa, ho aperto la prima pagina e mi sono lasciato andare. La sua scrittura risucchia, coinvolge, ha una forza motrice che ti spinge in avanti quasi senza accorgertene. È proprio un bel romanzo.

Come sindacalista devo essere vigile, controllando le condizioni ambientali in cui sono immersi i personaggi: metafore, poetismi, sintassi. Mentre leggo, i difetti spiccano insieme alle qualità.

L’autrice lavora per le case editrici, fa l’editor, cioè aiuta altri scrittori e scrittrici a migliorare i loro romanzi. Questa familiarità con la scrittura non la preserva da certe smorfiette retoriche. Per esempio, gli accumuli fitti di metafore prese da ambiti diversi: «Penso che siamo materiali di scarto, carte inutili in un gioco complicato, biglie scheggiate che non rotolano più»; in questo modo le metafore, invece di potenziarsi, si annacquano a vicenda. «Le prime settimane resto muta, larva, bozzolo, in ossequioso raccoglimento ascolto i miei pensieri claudicanti ronzare»: già “pensieri claudicanti” è un cliché stucchevole; in più, la loro zoppia si mette incongruamente a “ronzare”.

Poi c’è la compresenza di astratto e concreto, un’altra mossa che evidentemente all’autrice sembra suggestiva (per me a torto): «tra di noi sono piovute grandine e silenzio»; «succhiare da lei latte e pensieri».

Non mancano le metafore spiegate dai loro complementi di specificazione, che trovo leziose: «su cui scorre il fiume dell’indifferenza»; «cerco di ricacciarla nel buco della sua onta»; «rimarrà nell’hinterland delle nostre chiacchiere»; «su Massimo è calata la brina della costernazione».

Scrivere bene significa rifuggire da queste spennellature dorate. Editor, cura te ipsam.

Comunque il romanzo mi ha preso dalla prima all’ultima pagina, sono arrivato in fondo di slancio. Perciò ho accettato l’incarico. Ho fissato un appuntamento con il gruppo di personaggi.

I traslochi dei poveri

Mi faccio trovare nel paese dove è ambientato, dopo una prima parte che si svolge a Roma: arrivo ad Anguillara Sabazia, un comune a una trentina di chilometri dalla capitale, 20mila abitanti sul lago di Bracciano.

L’acqua del lago non è mai dolce è la storia di una ragazza cresciuta in una famiglia povera. Il padre è rimasto paralizzato dopo l’incidente sul lavoro. La madre, Antonia, ha un carattere d’acciaio, lavora fino allo sfinimento facendo pulizie nelle case, si batte contro le ingiustizie che mortificano lei e la sua famiglia. Con enorme fatica riesce a farsi assegnare dal comune di Roma le case in affitto che le spettano. Prima la mettono in un condominio signorile, dove la sua famiglia è trattata con ostilità; poi, per l’appunto, ad Anguillara Sabazia. Questi traslochi mostrano concretamente come la povertà significhi non avere scelta, essere esposti al vento che ti sradica e ti porta dove non puoi decidere. Ma Antonia pretende giustizia anche per gli altri, non solo per sé e i suoi; una volta fa di tutto perché una ragazzina disabile abbia il permesso di giocare nel cortile del condominio signorile, scandalizzando gli inquilini della buona borghesia.

In questa famiglia, oltre alla madre sergente di ferro, ci sono il padre in sedia a rotelle, sempre ingrugnato, e i figli: la ragazza protagonista, Gaia; suo fratello maggiore Mariano, figlio di un altro uomo, e nato quando la madre era giovanissima; e una coppia di piccoli gemelli. Gaia viene su con un carattere altrettanto duro. Il periodo cruciale dell’adolescenza lo passa proprio ad Anguillara Sabazia.

Uomini presi a botte

Sulla piazza del molo, ad aspettarmi, ritrovo quelli che erano venuti nel mio ufficio qualche giorno fa, e anche qualcuno in più. Sono tutti maschi.

Ci avviamo sul lungolago. Noto che uno cammina con un passo un po’ incerto. «Tu devi essere Alessandro», dico riconoscendolo, «il ragazzo che bullizzava Gaia a scuola».

Lui fa di sì con la testa: «Finché lei non ne ha potuto più e mi ha spaccato un ginocchio con la racchetta da tennis. Zoppico ancora».

«E a me ha dato un pugno in un occhio», dice un altro, «perché la insultavo».

«Ah, certo: Samuele, il ripetente», dico. «E Mariano dov’è?»

«Sono qua: il fratello maggiore ribelle, che nel 2001 va al G8 di Genova a manifestare, ma poi si fa venire a salvare dalla mammina, e invece di dare una mano in casa finisce ad abitare dalla nonna».

«Noi invece siamo quelli che abbiamo abusato di un’amica di Gaia, la quindicenne Carlotta, e ne abbiamo causato il suicidio».

«Io sono Andrea, il fidanzatino ricco e stronzo, che faceva l’amore con Gaia, ma si vergognava di farsi vedere in giro con lei». Dopo essersi presentato, ci conduce tutti quanti in un quartiere residenziale di Anguillara, dove c’è una villetta annerita da un incendio. «Gaia mi ha bruciato la casa perché l’ho tradita», dice.

«Una giustiziera delle donne!» esclamano un po’ tutti.

Chi è il padre non c’è bisogno di chiederlo: «Eccomi», dice l’uomo sulla sedia a rotelle. «Io secondo Gaia sarei “il burbero, il disinteressato, il nichilista”. Ti faccio questa impressione?» mi dice sorridendomi.

«Be’, magari adesso fai il simpatico con me», dico. «Ma riguardo al tuo incidente sul lavoro, la caduta dall’impalcatura…»

«Lascia stare, non è di quello che devi occuparti».

«Ma come, è il mio mestiere!» gli faccio notare.

«Ti abbiamo chiamato qui per un’altra cosa».

«Non vuoi sporgere denuncia per quello che ti è successo?»

«Non solo per quel che è successo a me. A tutti noi!»

I giovani che gli stanno intorno fanno di sì con la testa.

«Lavoravano in cantiere anche loro?», gli chiedo.

«Lavoravano come personaggi nel romanzo. E sono stati vittime di varie vessazioni d’autrice».

«Un attimo», obietto. «La protagonista ha picchiato duro anche una ragazza. Per poco non l’ha fatta affogare nel lago».

«Per gelosia!» dicono.

«E comunque le sue ritorsioni ve le siete meritate».

«Gaia lo dice chiaramente che ce l’ha con tutti noi: “Ne abbiamo abbastanza di uomini che non servono”. E sua madre, mia moglie, la avverte: “Sta’ attenta coi maschi, anche quando dicono di fidarti, anche quando sembrano capire, loro non capiscono”. E poi…»

«Quelle sono solo delle opinioni espresse dai personaggi», lo interrompo. «Anzi, dalle personagge, come bisogna dire oggi».

Lui si agita sulla sedia a rotelle. «Il problema non sono le vendette di Gaia, ma che noi si venga raffigurati così. Ti sembra giusto che i maschi debbano impersonare sempre e solo il peggio del mondo? Io stesso, dopo l’incidente che mi ha reso paralitico, non collaboro in casa, mi lamento sempre, non do mai una mano. Gaia di me dice: “Sembra volerci far scontare la sua sopravvivenza, il fatto che dall’impalcatura sia caduto proprio lui e non sia morto sul colpo pare essere un danno provocato da noi, uno sgarro che abbiamo compiuto”. Capisci? Non sto parlando solo di opinioni e giudizi su di noi, ma proprio di comportamenti dei personaggi maschi».

«È l’ennesimo romanzo androfobo», dice Mariano.

«Eh?»

«Un romanzo scritto da una donna, con protagoniste femminili che soffrono, battagliano, soccombono, si risollevano, e uomini insensibili, inutili, ostili, meschini, malvagi».

«In effetti», ammetto, «ne escono parecchi, oggi, di libri così. Tante romanziere si vendicano delle ingiustizie sulle donne scrivendo storie in cui i personaggi uomini sono quasi tutti impresentabili».

«Ah, te ne sei accorto anche tu!», dice uno dei giovani che stanno in piedi dietro la sedia a rotelle.

E un altro aggiunge: «Allora farai qualcosa? Ci supporterai con un’azione sindacale?»

«Non credo».

«Ma come! Sembravi d’accordo con noi».

«Infatti. Sono d’accordo».

«E allora? Perché no?»

Un’energia speciale

«Perché in questo libro c’è un’energia speciale che ti trascina. La sua collera è la sua forza. Le scene sono raccontate in un modo diverso dal solito, non cercano banalmente la fluidità: sono come una somma aritmetica di azioni, di sintagmi accumulati, una virgola dopo l’altra; ogni scena è un’addizione di verbi. Per esempio: “Lui insulta e strilla e rantola e io esco dal pallone, cammino svelta sui gradoni che portano fuori dalla palestra e per strada e al benzinaio e al piazzale della stazione, ho la racchetta in spalla, mi siedo alla panchina e aspetto il treno, ore 13.23 direzione Viterbo Porta Romana, vedo Carlotta e lei mi chiede come va.” Oppure: “Andrea torna e le saluta, io butto giù in pochi sorsi il mio drink e non accenno un sorriso, le persone stanno aumentando, Iris e Agata iniziano a ballare l’una sull’altra, si strusciano e lanciano occhiate ai maschi che le circondano”. Questo modo di raccontare avvince chi legge, è come una voragine che si apre sotto i suoi piedi».

«Sì, ma hai ammesso anche tu che la storia è tutta sbilanciata sull’odio verso i maschi…» interviene Mariano. «E a un certo punto non è più credibile. Perché mia sorella Gaia si iscrive a filosofia, e Antonia, nostra madre, la mantiene per altri cinque anni. Impossibile che una come Antonia, così occhiuta, così severa, costretta a risparmiare ogni singolo centesimo, la supporti in una scelta universitaria senza sbocchi. In casa avevamo le cassette della frutta al posto dei mobili, figurati se Gaia si poteva permettere una scelta simile…».

«Perché l’autrice ha fatto un accrocchio. Lo svela con onestà nella nota finale: si è ispirata a pezzi di vita vissuta, un po’ suoi, un po’ altrui; così ha innestato la sua giovinezza universitaria borghese nella storia d’infanzia e adolescenza di una sua amica proletaria, se ne è appropriata, e ne è venuto fuori questo ibrido».

«Eh, lo vedi…» dice Mariano.

«Ma non ha importanza».

«Come no?»

«Ci sono dei difetti, in questo romanzo, ma i pregi vincono. In alcune parti ti travolge. La protagonista è caricata a molla, è piena di risentimento. La sua rabbia…».

«È una rabbia che fa torto a noi, ci riduce a cattivoni grotteschi!» dicono i maschi di fronte a me. «E che strizza l’occhio alle lettrici, trova in loro un’approvazione facile»,

«È comprensibile. È una lotta politica combattuta con la letteratura. I romanzi non sono mica un mondo a parte. Partecipano dello spirito del tempo. In questo momento le donne lo gridano in tutti i modi, con tutti i mezzi…».

«Ma chi scrive romanzi non dovrebbe puntare a vincere facile. Dovrebbe comprendere le ragioni di tutti i personaggi, se no che romanziere è?».

«C’è tempo, c’è tempo. Quando Caminito lo capirà, scriverà libri ancora più potenti. Intanto fa bene a covare la sua rabbia. Suggerirle di smorzarla adesso, equivarrebbe a chiederle di rinunciare al suo attuale propellente di narratrice…»

«Così però a farne le spese siamo noi!»

«Un giorno potrete dire con orgoglio di esservi immolati sul percorso di formazione di una scrittrice importante».


Giulia Caminito è autrice del libro L’acqua del lago non è mai dolce, edito da Bompiani e finalista al premio Strega 2021

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