Libertà. Pare che si possano elencare oltre duecento significati di questa «proteiforme parola». Muoviamoci tra due estremi. Da un lato la mancanza di vincoli, dall’altro una libertà possibile solo entro i vincoli di un ordine dato: per essere liberi bisogna essere schiavi delle leggi.

La libertà si iscrive nel più vasto campo dei «diritti dell’uomo», una espressione diffusa a partire dalla pubblicazione, nel 1762, del Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau. Sono diritti che Thomas Jefferson nel giugno 1776 e di nuovo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 affermarono nella loro immediata semplicità o «autoevidenza» come naturali (ovvero inerenti agli esseri umani in quanto tali), uguali (gli stessi per tutti), universali (validi ovunque), così stringendo in un unico nodo libertà e uguaglianza.

Alle antiche libertà, patrimonio del feudo, della città, del borgo, delle comunità, e solo allora degli individui, la Rivoluzione francese mosse la guerra sostituendo un concetto singolo e onnicomprensivo di libertà, attributo dell’individuo. Lo fece con particolare virulenza distruttiva. La data della Rivoluzione è fissata dalla tradizione e dalla memoria pubblica in un giorno di violenza, il 14 luglio, quando il popolo di Parigi assaltò e poi rase al suolo la Bastiglia.

Un paio di anni più tardi, la Costituzione del 20 settembre 1791 fu aperta da un implacabile elenco di istituzioni, distinzioni, denominazioni, titoli, prerogative, ordini e privilegi che erano aboliti perché «ferivano la libertà e l’uguaglianza dei diritti». In quel caso, la dimensione assoluta della libertà si incarnò nella virulenza di un movimento anti-aristocratico, ostile ai privilegi. Il soggetto storico che poi con Marx si chiamerà borghesia nasce per opposizione al privilegio, così come il soggetto storico cui darà vita Marx, il «proletariato», sarà definito dall’opposizione alla borghesia, quasi in una riproduzione di un evento generatore.

Libertà e Illuminismo

La libertà al singolare riguarda, non può che riguardare, i singoli individui. Ma per poter immaginare un mondo, una società, in cui tutti sono liberi, e non solo alcuni, occorre stabilire di quale libertà si parli, da cosa e di fare cosa ciascuno sia libero, giacché solo in apparenza la libertà è uno stato, una condizione, è «l’essere liberi», come alcuni affermano. Nella realtà, la libertà è un termine di relazione, una relazione interpersonale che esclude impedimenti e costrizioni.

Questa è infatti la definizione più generale della libertà: l’assenza di vincoli, di impedimenti e di costrizione del soggetto. Il cammino della modernità è dunque segnato dalla perdita di legittimità delle molte dipendenze e subordinazioni, economiche, sociali, famigliari, per secoli ritenute forze della natura, da godere quando erano benigne, da sopportare quando non lo erano. Per questo nel 1762 la pedagogia dell’Emilio di Rousseau incoraggiava la libertà di scelta e l’indipendenza di giudizio. Su quella linea nel 1784 Immanuel Kant in Che cos’è l’illuminismo? parlò dell’«uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso», definendo la minorità come «l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro».

E ancora ribadendo quei concetti nella seconda metà del Novecento, Isaiah Berlin ha scritto che «il significato principale della libertà è la libertà dalle catene, dalla prigionia, dall’essere fatti schiavi da altri (...). Lottare per la libertà personale è sforzarsi di tenere a freno l’interferenza, lo sfruttamento, la schiavizzazione da parte di uomini i cui fini non sono i nostri». Enslavement: la condizione paradigmatica dell’impedimento e della costrizione è quella della schiavitù. Non a caso, in tutto il mondo antico la distinzione tra libertà e non libertà era espressa da quella tra schiavi e non schiavi (appunto liberi).

La schiavitù, che dominava i rapporti commerciali attraverso l’Atlantico, fu uno degli argomenti largamente dibattuti nella cultura degli illuministi che ripetutamente, insistentemente, la condannarono come barbarie contraria ai Lumi. Gli americani furono i primi a scrivere nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776 «che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti…». Ma ancora nel 1857, la Corte suprema dichiarò che gli schiavi e i neri liberi non erano tutelati dalla Costituzione non essendo cittadini né potendo diventarlo, e inoltre che le leggi che limitavano la schiavitù erano incostituzionali perché violavano il pieno diritto di proprietà sancito dal quinto emendamento. Solo dopo una sanguinosa guerra civile, nel 1865, la schiavitù fu abolita, e ancora la sua ombra si proiettò a lungo sul paese. Nel caso americano dunque la tanto esaltata libertà degli individui recava con sé i segni di pesanti dipendenze.

Con ancor maggiore decisione, la Francia della Rivoluzione predicava una universale liberazione. Eppure anche lì per anni si discusse se la Dichiarazione poteva applicarsi agli schiavi, e non se ne venne a capo. Nel marzo del 1790 fu deciso che le colonie non erano comprese nella Costituzione. Si arrivò così al decreto del 4 aprile 1792, che conferì i diritti politici e civili agli uomini di colore liberi. La schiavitù fu abolita solo nel febbraio 1794, dopo la violenta ribellione degli schiavi di Santo Domingo, per essere poi ripristinata da Napoleone.

Pur carica di simili, complesse vicende, la cultura illuminista e rivoluzionaria era dunque decisamente ostile alla schiavitù. Ma alcune argomentazioni di chi tendeva a sostenerne le ragioni avevano una lontana origine classica e avrebbero attraversato anche l’età contemporanea, sviluppandosi nelle più varie direzioni. In Grecia e a Roma la schiavitù poteva essere aristotelicamente considerata come «del tutto aderente a un immaginario e ferreo ordine cosmico del mondo».

Sappiamo d’altra parte che i grandi virginiani, creatori della Repubblica americana, erano possessori di schiavi, molti dei quali schiavi domestici. L’intima relazione degli schiavi di colore con i loro padroni bianchi, con le donne e i bambini – una consuetudine destinata a sopravvivere attraverso tutte le trasformazioni giuridiche e di costume – è dunque un indicatore sensibilissimo di rapporti sociali. Vi rifletté Tocqueville dedicando ai rapporti tra servo e padrone un capitolo della sua Democrazia in America. «Non è ancora esistita una società, scriveva Tocqueville nel 1835, in cui le condizioni fossero tanto uguali che non vi si incontrassero né ricchi né poveri, e di conseguenza né padroni né servi.

La democrazia non impedisce l’esistenza di queste due diverse classi, ma ne cambia lo spirito e ne modifica i rapporti». In questa visione, il rapporto tra servo e padrone – un rapporto onnipresente nella società borghese come in quella aristocratica – segnala la faticosa evoluzione del principio gerarchico in cui Tocqueville avvertiva che «c’è quasi sempre un momento in cui l’animo umano tentenna tra il concetto aristocratico di soggezione e il concetto democratico di obbedienza».

Libertà e legge

In ogni caso, era evidente che la libertà non consisteva nel non avere limiti, ma che al contrario consisteva nell’averne, nell’essere vincolati da leggi, leggi che a volte si presumevano dettate dalla natura. E in questa prospettiva i confini tra libertà e illibertà divenivano assai malcerti. Infatti non tutte le dipendenze erano da svellere in nome della libertà. Così come il cittadino romano era libero nella res publica, non dalla res publica, ovunque «il soggetto non è veramente libero quando soddisfa i propri desideri, ma quando li controlla, proprio come la città è veramente libera non quando vi si disfrenano le passioni popolari, ma quando vi governano i migliori».

Ma l’idea che solo la legge può dare libertà, che per essere liberi occorre essere schiavi delle leggi, ha le più varie declinazioni. Un esempio di obbedienza alla legge lo offre la visione cristiana, giacché la libertà cristiana è obbedienza a una legge perfetta, quella di Dio. È probabile che i primi cristiani attendessero di vedere personalmente il regno dei cieli. Procrastinandosi la fine dei tempi, si pose loro il problema di come comportarsi di fronte alle istituzioni di questo mondo, con le quali vennero a patti proprio in nome di una futura promessa.

Così la legge spirituale si tradusse nel civile, e originò il «date a Cesare quel che è di Cesare», che può comprendere anche l’accettazione delle più gravi diseguaglianze. Non diversamente accade in altre religioni. Anche i comunisti del XX secolo erano fiduciosi di vedere prossimamente il crollo del capitalismo, unica salvezza del mondo così come prefigurato nelle Scritture, e solo nell’attesa, interpretandone i segni, poterono stipulare ogni sorta di accordo, e assoggettarsi alle leggi dei tempi, che nel loro caso poteva significare accordarsi con le dittature, o venire a patti con le politiche riformatrici.

La Dichiarazione del 1789 affermava che «l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla Legge». Tutto dunque dipendeva dalla natura della legge, e dunque dall’organizzazione dei poteri, dalla Costituzione. Alla quale poteva essere attribuito il compito di garantire i singoli dai propri simili, proteggendoli dal disordine che dominava la società. In una nota del Contratto sociale, Rousseau testimonia di aver letto «Libertas» «sul frontone delle prigioni e sui ferri dei galeotti» di Genova.

«Tale uso del motto è bello e giusto, annotava, e veramente solo i malfattori di tutti gli stati impediscono ai cittadini di essere liberi. Nel paese in cui tutti costoro fossero in galera, si potrebbe godere della più perfetta libertà». Dove si può cogliere l’ambivalente significato della libertà, a un tempo estrema soggezione alla legge oppure esclusione dalla società di quanti la minacciano e solo allora liberazione di energie non altrimenti regolate.

Se ne deve concludere che la sottomissione alla legge è ovunque un elemento costitutivo della libertà. Ma con accenti diversi. Per John Locke «la libertà consiste nella possibilità per chiunque nel disporre e organizzare liberamente, come gli piace, sé stesso, le proprie azioni, i propri beni e tutto ciò che gli spetta (property) nei limiti delle leggi cui sottostà». «La libertà politica per un cittadino, ha poi scritto Montesquieu parlando dell’Inghilterra, consiste in quella libertà di spirito che proviene dall’opinione che ciascuno ha della propria sicurezza; e poiché si abbia queste libertà bisogna che sia tale che un cittadino non possa temere un altro cittadino».

Ed è da questa libertà, esercitata nei confronti degli altri cittadini, che sarebbe germogliata l’idea di libertà coltivata da tutto il pensiero liberale contemporaneo, per il quale il potere non solo definisce gli spazi dell’autonomia, ma si impegna attivamente a difenderli come era stato stabilito fin dal 1215 con la Magna Charta: «nessun uomo libero può essere arrestato, imprigionato (...) o danneggiato in alcun modo, eccetto dal giudizio legale dei suoi pari e dalla legge del paese».

Le antiche libertà degli inglesi erano dunque affermate in direzione del potere politico – in quel caso contro gli arresti arbitrari. Diversa era la libertà dei francesi, di stampo assolutistico, derivante dalla drastica aggressione ai privilegi e a tutte le aggregazioni sociali che si frapponevano tra l’individuo e il sovrano, tra l’interesse individuale e l’interesse generale. Si può perciò dire che in Francia la libertà armò il potere centrale (lo stato) contro i privilegi (aristocratici), e in Gran Bretagna fece leva sui privilegi per opporsi al potere centrale. O anche che la libertà dei francesi si affermò nella cruenta lotta ai privilegi, e che gli inglesi coltivarono invece l’amore della «libertà attraverso il privilegio».

Ma va fatta distinzione tra libertà civili e libertà politiche, tra la libertà dell’uomo e quella del cittadino, tra la sfera privata e quella pubblica. La Dichiarazione del 1789 condensava in un unico documento sia le protezioni giuridiche dei diritti individuali, sia una nuova base di legittimità del governo. Lo avevano fatto anche i coloni americani quando avevano costruito la rivendicazione di un nuovo assetto politico – l’indipendenza – sulla base di una affermazione universalistica dei diritti umani.

Ma la distinzione – tra diritti civili e diritti politici – continuò a operare nel diverso trattamento riservato a determinate categorie di persone: caso più emblematico le donne, che con l’Ottantanove videro ampliarsi notevolmente gli spazi civili (ad esempio ottennero la parità successoria, o il diritto al divorzio), ma mai e in nessun paese, fino al secolo XX, la cittadinanza politica, nonostante il loro protagonismo nella Rivoluzione. Attorno a questi temi ruota anche la distinzione tra libertà «negativa» e libertà «positiva», delle quali si parla anche come libertà da (dall’arbitrio dei potenti, dagli arresti arbitrari...) e libertà di (di aver voce nella cosa pubblica).

La distinzione percorre tutto il pensiero politico moderno, a seconda che le libertà si sviluppino in senso liberale o in senso democratico: nel primo caso insistono sulle libertà negative, proprie dell’individuo (e quindi riducendo al minimo le interferenze dello stato), nel secondo dando maggior valore – come aveva fatto Rousseau – alla volontà generale e alla partecipazione collettiva del corpo politico. «Lungo tutta la storia politica dell’Ottocento, ha scritto Norberto Bobbio, le due correnti si svolgono spesso l’una indipendente dall’altra, talora scontrandosi e avversandosi: il liberale accusa il democratico di preparare la strada a un nuovo dispotismo, il democratico accusa il liberale di difendere sotto specie di libertà l’interesse dei beati possidentes e di minare l’unità sociale».

Infatti la libertà negativa prospetta una eguaglianza «di partenza», che dà a tutti indistintamente le stesse possibilità di partecipare alla dinamica sociale e che ha ispirato tutte le dottrine liberali, intese a valorizzare le capacità. Una eguaglianza non «di partenza», ma «di arrivo», attenta più che alle capacità ai bisogni, sarebbe stata vessillo delle ideologie socialiste.

E per queste vale il principio della libertà nella subordinazione alla legge, purché però si avesse il controllo popolare della legge. Così pensava anche Jean-Jacques Rousseau, per il quale la libertà non era altro che «l’obbedienza alla legge che ci siamo prescritti», una norma ripresa da Kant, il quale definiva la libertà «come la facoltà di non ubbidire ad altre leggi esterne, se non a quelle cui io ho potuto dare il mio assenso».

Anche nel dettare la potenza assoluta dello stato, come poi sarebbe avvenuto con Hegel, una visione siffatta metteva l’accento sul consenso, sulla sovranità popolare, da esprimersi attraverso il suffragio. La vera libertà era dunque nell’accettare le leggi fatte con la partecipazione di tutti (oltre che in accordo con le leggi naturali). È la base della democrazia moderna.

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