Se ai karaoke si cantano le canzoni di Calcutta invece dei Backstreet Boys, se i The Kolors fanno partire le feste in spiaggia d’estate, se la tuta gold apre uno squarcio sul mondo metropolitano di periferia e se cantando Geolier ci sentiamo tutti un po’ napoletani, forse vuol dire che la musica italiana pop risulta più intrigante di un tempo e qualcosa nell’italiano pop sta davvero cambiando.

Ne è convinta Beatrice Cristalli, sociolinguista e autrice per Treccani delle indagini Canzoni e parole nei cuori dell'itpop e Di cosa parliamo quando parliamo di trap, che a pochi giorni dalla fine della 74ª edizione del Festival di Sanremo, torna su trend e fenomeni linguistici emersi dalle canzoni vincitrici.

Parlato quotidiano

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Seppur non sia stata l’edizione più rivoluzionaria dal punto di vista linguistico – siamo lontani dalle sorprendenti “sciccherie” di Madame a Sanremo 2021 – il quinto festival di Amadeus, che ha definitivamente conquistato i più giovani, continua ad infiammare il dibattito pubblico sull’italico idioma.

«Il linguaggio è sempre più medio e vicino al parlato quotidiano», Beatrice Cristalli si ritrova nella sentenza dell’Accademia della Crusca sull’italiano di Sanremo. «La maggior parte dei cantanti si avvicina a un linguaggio medio neostandard e ciò risulta più evidente nelle scelte lessicali. Nei testi delle canzoni si ritrovano molti disfemismi, ovvero quelle che sono percepite come espressioni volgari dello slang giovanile (“fottuta personalità” di Mahmood, “coglione” di Sangiovanni), gergalismi (i bo di Gazzelle), dialettalismi (“I p' me, tu p' te” di Geolier) e regionalismi (Gazzelle: “e sai com’è, mi sa che c’entri te”, chiaro riferimento al romanesco)».

Il parlato quotidiano che entra nella musica porta con sé quindi la ricchezza dello slang, che si caratterizza «per apertura, flessibilità e dinamismo. E oggi lo slang si contamina con il vocabolario digitale, o meglio, che passa attraverso la rete e nella rete muta di significato. In particolare lo slang regionale recupera espressioni dialettali spesso associate al mondo degli adolescenti. In rete infatti assistiamo a una sorta di revival del dialetto che supera anche le barriere regionali».

Slang e dialetti

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Inevitabilmente il nuovo festival della canzone italiana che vuole sedurre anche gli under 18, i tiktoker e la generazione streaming che il televisore neanche ce l’ha, non può fare a meno di accogliere slang e dialetti. Tra tutti è il napoletano ad aver conquistato il palco dell’Ariston, è il napoletano di Geolier ad aver trionfato nonostante i fischi e le critiche.

Accusato dai più di essere incomprensibile e dai puristi, tra cui Maurizio De Giovanni, di non utilizzare il napoletano tradizionale, Geolier canta in uno slang napoletano da lui stesso definito di strada. «La lingua orale va adattata allo strumento vocalico», spiega Cristalli. «Poi come ricorda il linguista De Biasi, il dibattitto sul fatto che il dialetto napoletano si debba scrivere come si parla dura da 200 anni. Nella musica più che mai, però, la grafia usata diventa parte della creazione artistica, perciò per una questione di ritmo la lingua scritta e quella orale possono subire divergenze in barba alle regole».

Nel mondo musicale questa polemica torna sempre quando non si usa un idioma puro. Anche Pino Daniele fu contestato per i suoi testi in napoletano, come a un concerto a Pescara nel 1980. Quel che è certo è che, per quanto si consideri il napoletano un idioma autonomo con regole proprie e una tradizione scritta consolidata, la lingua è viva e muta continuamente, riflettendo lo spirito del tempo.

Il culto del napoletano

Polemiche a parte, Geolier è il golden boy dell’industria discografica italiana ed è secondo in classifica tra gli artisti più ascoltati su Spotify. Evidentemente il suo napoletano, seppur poco comprensibile per alcuni, riesce ad arrivare al cuore di tutti.

«È la forza, l’espressività e l’immediatezza fonica del napoletano, una lingua eloquentissima». Lo conferma Roberto Saviano: «Il napoletano diventa la lingua dell'hip hop perché è una lingua autentica. Il dialetto raccoglie in sé uno slang, una onomatopea, un'emozione molto più vera della lingua che ascolti al telegiornale, nei tribunali o nei luoghi di potere. È questa la magia della lingua napoletana: puoi non capirla, ma non ti respinge. Ti senti comodo ed è questa la magia di Napoli».

Al successo di Geolier hanno chiaramente contribuito anche serie tv come Gomorra, L'Amica Geniale e Mare Fuori, che hanno diffuso il culto del napoletano. A dichiararlo poi definitivamente cool ci ha pensato Liberato, che sulla scia del napolinglish di Pino Daniele ha creato il suo «code-mixing: la lingua di base è il dialetto partenopeo, talvolta mescolato all’inglese («Faje semp chest, and you'll never change»), al francese («Mon amour staje semp' 'e na manera»), allo spagnolo («Mi corazon m'e luat o' suspir») e per finire a un poco di italiano («Terra mia, terra mia»)».

Il mistilinguismo

L’ibridismo linguistico e l’immaginario urbano sono i fil rouge quindi delle canzoni più apprezzate all’ultimo Sanremo e in generale più amate dalle giovani generazioni, che invece lasciano il pubblico più adulto a cercare di decifrare il nuovo italiano.

Mahmood, che si piazza al primo posto della classifica Top 50 Italia di Spotify scalzando Geolier, è l’artista che più mette in crisi i boomers. Quanti di loro avranno capito il senso di Tuta Gold? Quanti avranno visto nello “zucchero in tasca” la cocaina? E nel “baby, non richiamerò” nonostante i cinque cellulari, la comunicazione problematica di Gen Z e mondo social?

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«Quello di Mahmood è un italiano urban, intriso di gergalismi (fra per dire fratello), anglicismi (bitch), rime per l’orecchio (ricorderai e moonlight), rime baciate (fake e rave), scorciatoie linguistiche ed eufemismi (i fiori da fumare, lo zucchero inteso come droga). A chi non conosce la discografia di Mahmood sarà sembrata una lingua aliena, ma fin dai suoi primi album ricorre al mistilinguismo, un tratto negli anni quasi sempre associato all’itpop italiano e alla trap, poi diventato il carattere distintivo di quello che io chiamo codice Mahmood. Il cantante, conosciuto per il suo “marocco-pop”, per me rientra tra quegli artisti come Calcutta, Gazzelle, Franco126, Carl Brave che, dal 2019 in poi, hanno iniziato a giocare con altri idiomi e a far entrare nell’italiano anglicismi, termini dello spagnolo o dell’arabo», conclude Beatrice Cristalli.

Dell’ibridismo culturale e linguistico anche Ghali, nel suo primo periodo, ne aveva fatto la chiave per comunicare allo stesso tempo con immigrati, figli di immigrati e Millennial italiani. E se in gara quest’anno presenta una canzone dal linguaggio più pulito, forse per enfatizzare la sua identità di italiano vero, non perde occasione di portare l’arabo sul palco dell’Ariston per ricordare che la musica, anche quando non comprensibile, è inclusiva e la lingua della musica universale.

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