In un editoriale per The Free Press, l’imprenditore e investitore tecnologico Marc Andreessen proclama la buona novella dell’intelligenza artificiale. “L’Ia salverà il mondo” recita il titolo. Secondo Andreessen, l’intelligenza artificiale faciliterà tutti gli aspetti della vita, mettendo il turbo alle innovazioni e dando nelle mani di tutti un potere tecnologico senza precedenti. Non da ultimo, ci accompagnerà in un’«età dell’oro» delle arti creative, un’era in cui gli uomini potranno realizzare la propria visione di «molto più veloce», «su scala più vasta».

In questo nuovo mondo le applicazioni di intelligenza artificiale che permettono di generare un testo e immagini con istruzioni minime vengono pubblicizzate per la loro capacità di liberare i creativi dal commettere errori, dal fare fatica e dalla solitudine nel loro lavoro. In altre parole, dalle caratteristiche del processo creativo.

Visto al di fuori della lente meccanicistica dell’efficienza, questa visione utopica sembra stranamente distopica. Se l’era digitale, con i suoi algoritmi che sfruttano l’indignazione e i flussi senza fine di “contenuti”, ci ha insegnato una cosa, è che una maggiore potenza tecnica non significa necessariamente un migliore allineamento con gli obiettivi umani. Gli artisti e i creativi, le persone che traggono un valore non solo dal risultato della creazione artistica ma anche dal suo processo, che mirano a esplorare una visione vagamente concepita piuttosto che realizzarne una preconcetta – lo sanno nel profondo.

Decidere dove dare una pennellata (fisica o digitale) o scegliere una parola per la sua precisa connotazione sono azioni deliberative attraverso le quali separiamo le idee buone da quelle cattive, scoprendo cosa “funziona” e cosa no nell’esperienza di interazione con ogni componente di un progetto e intuendo come è in relazione con l’insieme. Usare l’intelligenza artificiale per creare istantaneamente un’intera immagine, invece, evita le sfide e le opportunità di lottare con ogni parte.

Creare un romanzo o una storia con l’assistenza del flusso costante dell’intelligenza artificiale, evita di rimanere da soli con i nostri pensieri, di cercare di uscire dai nostri schemi mentali. Qualcuno potrebbe dire che questo è proprio il punto.

«Grazie all’intelligenza artificiale possiamo rinunciare alle deviazioni superflue del nostro viaggio creativo se lo decidiamo, mentre invece chi vuole percorrere la strada panoramica può continuare a farlo». Il problema è che i datori di lavoro spinti dal desiderio di competere in un mercato veloce potrebbero richiedere ai propri dipendenti di abbreviare regolarmente il processo, aspettandosi che utilizzino strumenti di intelligenza artificiale non solo per l’arte, ma per qualsiasi attività che implichi il pensiero concettuale.

Gli insegnanti che vogliono preparare i propri studenti alle realtà della vita possono chiedere loro di fare lo stesso. In questo scenario quella che viene chiamata intelligenza artificiale generativa potrebbe passare dall’essere un’opzione a disposizione a una necessità incombente in attività creative e analitiche redditizie, cementando le aspettative culturali secondo cui è semplicemente “così com’è”.

Ciò potrebbe dare vita a una società in cui coloro che trascorrono la vita affinando le capacità creative e cognitive sono sempre meno e più distanti tra loro. Ironicamente, se ciò dovesse accadere, potremmo vedere addirittura una riduzione della capacità nell’uso efficace dell’intelligenza artificiale.

Dopotutto, utilizzare la tecnologia in modo da servire gli obiettivi umani richiede di determinare quali siano tali obiettivi e il processo di creazione aiuta a dargli forma. «L’arte è una linea che circonda i tuoi pensieri», diceva il pittore Gustav Klimt. «Scrivere è pensare», ha scritto lo storico David McCullough.

Opportunità

Tradizionalmente ci siamo affidati a discipline qualitative come l’arte, la letteratura e la filosofia per esaminare come comportamenti e politiche specifici informano il nostro senso della profondità, della bellezza e del significato della vita. Le persone che si immergono in questi campi pensano molto all’impatto del mezzo e del metodo sul messaggio: una linea di indagine essenziale in un tempo di rapidi cambiamenti tecnologici.

Le iscrizioni alle discipline umanistiche però sono in declino da un decennio, in parte a causa della convinzione che queste materie siano sempre più irrilevanti in una cultura incentrata sulla tecnologia. Se l’intelligenza artificiale suonerà la campana a morto nelle università e in altri luoghi, come secondo alcuni succederà, la nostra capacità di comprendere lo sviluppo umano – e di utilizzare l’intelligenza artificiale in modo che sia al suo servizio – è certo che si ridurrà.

Fortunatamente, il futuro non è scritto nella pietra. Come con qualsiasi tecnologia, dobbiamo decidere come e in quali contesti utilizzare l’intelligenza artificiale. Poi dobbiamo decidere quali pratiche esistenti accettiamo che sostituisca. Questo momento difficile può essere sfruttato come un’opportunità per rilanciare la conversazione su come determiniamo ciò che vale.

Possiamo ravvivare lo scopo tradizionale delle discipline umanistiche, nei campus universitari o altrove. Potremmo chiamarlo un guardare indietro per guardare avanti: esaminare come i metodi tradizionali di creazione accrescono le nostre vite prima di decidere se e in quali circostanze scartarli; applicare le domande secolari – “Qual è lo scopo dell’arte?”, “Cosa significa vivere una buona vita?” – ai problemi new age per affrontarli con saggezza e umiltà. Nelle parole dell’artista visivo Chuck Close: «Le migliori idee nascono dal processo; nascono dall’opera stessa».

Qualunque cosa ci riservi il futuro, dovremmo tenere a mente queste parole. Dopotutto, anche se l’intelligenza artificiale cambiasse la produzione artistica per come la conosciamo – e questo è un grande “se” – dovremo comunque fare i conti con l’arte di vivere.


Questo articolo è stato pubblicato sulla testata online Persuasion. Traduzione di Monica Fava

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