La prima volta che ho incontrato il pugile Guido Vianello eravamo a una festa di compleanno, a Milano. Lui, romano dell’Eur, 28 anni, si trovava in città per il match tra il favorito “King Toretto” Daniele Scardina contro Giovanni De Carolis che, contro ogni pronostico, è risultato poi vincitore.

Vianello, camicia bianca e denti perfetti, non sembrava affatto un pugile se non per l’altezza, un metro e 98, e un leggero livido sotto l’occhio che tradiva le sue buone maniere.

«Suono il pianoforte, prendo lezioni da un maestro di conservatorio», mi disse mentre ordinava da bere per me, per lui e per il campione olimpico di karate Luigi Busà che lo accompagnava. Le sue mani erano perfette e curate, effettivamente.

Ci teneva a prendere le distanze dal cliché del pugile cresciuto ai margini in cerca di riscatto, pronto a dare il via alla rissa da un momento all’altro.

La serata poi è proseguita in un altro locale e da allora non ci siamo più persi di vista, anche se ha passato l’estate ad allenarsi tra Londra e Las Vegas, negli Stati Uniti, sua città di residenza degli ultimi quattro anni.

Pochi giorni fa si è fatto vivo invitandomi a vedere il suo match a Roma, il 28 ottobre al Pala Atlantico, contro il pugile scozzese Jay Carrigan McFarlane.

«Ma vi fate male davvero?», è la domanda che sussurro mentre valuto se partecipare all’incontro. Usa le buone maniere anche stavolta. «La boxe è uno sport di contatto, non è ping pong». E poi: «Però dopo andiamo a fare festa, ho prenotato un locale tutto per noi, vieni».
 

Partiamo da qui. Chi vince sul ring?
Chi non sente dolore. Il pugilato è sofferenza fisica e stanchezza. Ci sono ragazzi che rifiutano il contatto, al primo colpo ricevuto si girano e se ne vanno. Per me non è stato così.

Nei miei match potrei anche morire perché non sento male, vado oltre, ho questa caratteristica. Fin da subito, se subivo un colpo ne rimettevo altri dieci. Anzi, prendere quel colpo mi svegliava.

Nei primi combattimenti perdevo sempre la prima ripresa, per poi rialzarmi dall’angolo e vincere per ko il secondo round. Tiravo fuori una cattiveria agonistica che non avevo mai avuto. L’ho scoperta sul ring.
 

Ma perché boxe e non tennis. Tuo padre ha un centro all’Eur, a casa tua giocano tutti, sarebbe stato facile.
È stato istinto. Avevo 15 anni, ero timido, tenevo tutto dentro. Ero già alto, e avevo il 49 di scarpe. Non ridevo mai. Era incredibile come tutta la mia insicurezza venisse fuori ogni volta che colpivo il sacco.

Come se mi liberassi di un peso. Ero un controsenso vivente, un ragazzo timido che non riusciva a conoscere le persone. Poi arrivava lì sul ring e faceva a pugni. La boxe mi ha fatto diventare uomo.


Qual è il giorno che ha cambiato le tue sorti?
L’incontro con Italo Mattioli, il mio allenatore. Tutti i giorni passavo col mio Rs Aprilia davanti a un capannone, era la palestra popolare della Montagnola, fuori c’era scritto Team Boxe.

Avevo visto i film di Rocky Balboa e per me significava gente con problemi. Un giorno mi fermo ed entro, l’aria era irrespirabile. Sentivo urla, colpi contro i sacchi, e un odore forte di guantoni sudati e tappetini. Mi viene incontro Italo e mi fa: «Dimme».
 

Poi?
Qualche parola e poi mi chiede: «Quanti anni hai?». Quindici, gli ho risposto. E lui: «Mortacci. Quando voi venì?». Da allora non ho mai smesso di frequentare la palestra.
 

La tua famiglia era contenta?
No, mio padre voleva che continuassi tennis. L’ho convinto quando ho vinto la prima medaglia. Mia madre ancora oggi ha paura, mi ha visto solo alle Olimpiadi di Rio nel 2016 e al mio primo match al Madison Square Garden di New York nel 2018.
 

Come ci sei arrivato alle Olimpiadi?
Avevo vinto molte medaglie nella categoria pesi massimi, facevo già parte dell’arma dei carabinieri. C’era un solo posto, mi sono qualificato in Azerbaigian.

Avevo Francesco Damiani come direttore tecnico e un allenatore russo che continuava a ripetere “rabota, rabota”, lavora, lavora.
 

Alle Olimpiadi hai preso il posto di Roberto Cammarelle.
Un grande uomo. Avevo 22 anni e lui 36, è stato un passaggio di testimone. Lui si era appena ritirato ma ho avuto l’onore di allenarmi al suo fianco.

Roberto non menava i ragazzini appena entrati in palestra, si allenava con loro. Mi ha insegnato la disciplina.
 

C’era anche Clemente Russo.
È stato una scuola di vita, non solo pugilistica. Fa parte della scuola di Marcianise, in provincia di Caserta. È un paese con tre palestre, le prime in Italia. Da quel team ho imparato a smaliziarmi nella vita.
 

Ti piace la trap?
No.
 

Che cosa ascolti?
Mi concentro col pianoforte. Se mi alleno mi piace il rock dei Queen o anche Michael Jackson.
 

Ti piace la boxe al cinema?
Le scene sul ring no, si capisce che sono finte. Poi vorrei dire ai registi che non esistono solo storie di pugili in difficoltà, ma anche di sportivi che conducono vite normali. Lo rivendico.
 

Le storie di rivalsa sono più affascinanti.
Vero, ma vorrei che la boxe diventasse uno sport per tutti, non solo per chi non ha scelta nella vita o di chi deve picchiare perché è stato picchiato a sua volta. Richiede una dedizione che va al di là della condizione sociale.
 

Ti capita mai di fare a botte fuori dal ring?
Certo che no, se picchio io faccio male. Se fai il pugile professionista devi esserne consapevole. Se vengo provocato, perché è capitato, la testa mi aiuta a fermare l’istinto, mi giro e me ne vado.
 

Raccontami com’è andata.
Solite cose da locali. Mi basta uno sguardo. Eppure c’è gente talmente scema che vorrebbe combattere per strada come sul ring.
 

Un segreto che ti è servito?
Darsi obiettivi raggiungibili. Ci arrivi e alzi l’asticella. Un campione è fatto di energie, anche mentali, e devi dosarle per vincere i campionati.
 

Nessun pugile italiano è arrivato a Las Vegas. Tu come hai fatto?
Quel giorno avevo tutti i pianeti allineati a mio favore. Mi allenavo in Inghilterra, proiettato sulle olimpiadi di Tokyo 2020.

Mi stavo allenando con un pugile famoso e c’erano dei manager presenti in sala, uno di questi mi avvicina e mi chiede il numero. Dopo pochi mesi viene a Roma col suo avvocato.
 

E che voleva da te?
Mi presentano un contratto della Top Rank Boxing, il promoter numero uno al mondo. Il presidente è Bob Arun, la storia del pugilato mondiale, il manager di Mohamed Alì. Oggi ha 90 anni ma lo trovi ancora a bordo ring.
 

Com’era il contratto?
Volevano investire su di me a Las Vegas: primo incontro a New York, al Madison Square Garden. Non era un “vieni e vediamo”.
 

Risposta tua?
Se è tutto vero parto con voi domani.
 

Ti pagano bene?
Sì, lì girano cifre impensabili in Italia. Sono stato il primo che ha dato le dimissioni da un gruppo sportivo militare per passare, da professionista, con un promoter americano. E ho vissuto a Las Vegas più di tre anni.
 

Esistono i supermercati a Las Vegas?
Sì. A parte la via più famosa, poi c’è la periferia dove ci sono villette, scuole e negozi. La cosa brutta è che è tutto uguale. Dopo tre settimane, a nove ore di fuso orario, ho capito che cos’è la solitudine. Mi sono adattato. Per sopravvivere in quel mondo, non puoi essere stupido.
 

I carabinieri come l’hanno presa?
Mi è dispiaciuto lasciarli, hanno investito su di me per dieci anni. Ma alla fine ho avuto solo abbracci e complimenti. Penso spesso alla frase di un collega: «Siamo contenti che uno di noi sia riuscito ad andare lì».
 

Sul ring ti chiamano The Gladiator e indossi una maschera.
Pesa molto, è identica a quella del film. La prima volta che l’ho messa al Madison Square Garden mi mancava la salivazione ma ho ringraziato di averla. Nascondeva l’emozione.
 

A Roma combatterai con Jay Carrigan McFarlane.
All’attivo ha 15 vittorie e tre sconfitte, è imprevedibile. È un evento top rank, se mi batte, al match successivo guadagna il triplo. Ma non mi batte.
 

Ha tatuaggi ovunque, fa paura.
Io non ho tatuaggi, ma sul ring faccio paura anch’io.
 

Possiamo confidarlo che mangi 300 grammi di pasta?
Solo a pranzo. Poi ci sono i 300 grammi a cena. E il resto. Ma con gli allenamenti intensi che faccio rischio di perdere peso.
 

Il tuo idolo chi è?
Floyd Mayweather, che guadagnava 150 milioni di dollari a match. Lui però non è un peso massimo.
 

Il peso massimo che stimi?
L’attuale campione del mondo Tyson Fury, grande sportivo e grande uomo.
 

Dimmi una cosa da cattivo.
Mi piacerebbe combattere con Volodymyr Klycko, ex pugile ucraino, campione del mondo per dieci anni. Ora è impegnato in guerra col fratello Vitaly, sindaco di Kiev. Vivono in mimetica, al fronte. Sono milionari che potevano scappare.
 

Ancora una cosa da buono. Riproviamo. Perché "King Toretto” ha perso quella sera a Milano?
Ho conosciuto Scardina in nazionale quando eravamo piccoli, lui poi è andato a vivere a Miami, è diventato amico dei rapper, si è fidanzato con Diletta Leotta, fa molte cose.

Lo stimo da sempre ma la bella vita e il pugilato non possono convivere. La sera di quel match, nello spogliatoio di Daniele c’era troppa gente, troppe distrazioni. Ora è a Londra a ritrovare la concentrazione.
 

Sei sempre troppo gentile.
La cattiveria la porto solo sul ring, vieni a vedermi lì.

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