Sapevo che non sarei dovuta venire a Londra. Camminare sulla Cornwall Gardens alle dieci di sera dovrebbe essere vietato, qui non si usano le tende e la concentrazione di case da sogno in meno di un chilometro è quanto di più inebriante mi potesse capitare.

Palazzine bianche con portoni regali e colonne all’entrata, finestre enormi e doppi soffitti, lampade di design, libri, quadri, alberi sui balconi che si affacciano sui giardini.

Quelle due ragazze all’ultimo piano chi sono, che cosa si stanno dicendo, perché non siamo amiche? Per guardare in su ho rischiato due volte di finire addosso agli abeti sdraiati sul ciglio del marciapiede. Non credevo si usassero ancora quelli veri per fare l’albero di Natale ma a South Kensington mi sa che fa status.

Perfino i basement sono di design e hanno un angolo bar, noto spiando dai vetri un ragazzo sui 30 seduto su un divano in pelle, tra mura a vista e parquet antico. Indossa delle cuffie da dj e una felpa rossa, se normalità dev’essere io voglio la sua.

Equilibrismi

Sono qui per l’anteprima mondiale dello spettacolo del Cirque du Soleil, il primo dopo la pandemia che ha costretto la compagnia a dichiarare fallimento e gli artisti a cambiare mestiere. Sembrano trattarsi bene ora, visto che è andata in scena alla Royal Albert Hall. Considerato il sold out e la standing ovation finale, hanno avuto ragione a tenere duro.

Ho visto la prima dal palco d’onore, di fianco alla Prince of Wales room, tra moquette spessa una mano e ritratti d’epoca. Hanno chiamato lo show Kurios – Cabinet of Curiosities, ispirato ai viaggiatori del passato, cento minuti che volano, proprio come i 49 membri del cast che fluttuavano nell’aria appesi a fili invisibili sfidando le leggi di gravità. Indimenticabile l’acrobata in bicicletta a venti metri da terra e la dolcezza dell’artista alta un metro e considerata tra le dieci più piccole del mondo.

Ma le mie risate più forti – non riuscivo a fermarmi – erano tutte per il contorsionista che ha invitato sul palco una ragazza dal pubblico, l’ha fatta sedere su un divano al centro della scena, e poi, per un tempo indefinito che speravo non si interrompesse mai e che lei invece desiderava finisse in fretta, ha imitato un gatto che chiedeva le sue attenzioni, per poi finire a vomitare sul tappeto una palla di pelo. Lo show arriva a Roma il 22 marzo e a Milano il 10 maggio, e so già che ci tornerò.

Il libro di Harry

Però non dovevo venire a Londra lo stesso. E ne sono convinta anche dopo aver gustato la pizza più buona Da Mario, a due passi da Victoria Road, la preferita di Lady Diana, dicono i proprietari con accento partenopeo, sebbene vivano nel quartiere da quarant’anni. Pare sia venuto qui più volte anche Harry prima di legarsi a Meghan, sussurra, con una punta di malizia il lavapiatti indiano. Ma non toccatemi Harry.

Stamattina sono salita sul volo della British Airways con in mano il suo tomo di 535 pagine, e questo è bastato per incrociare lo sguardo d’approvazione di due inglesi. Uno mi ha persino aiutato, senza che lo chiedessi, a mettere il trolley nella cappelliera. «Amore della mia vita, grazie, grazie, grazie. Senza di te questo libro non sarebbe stato possibile. Senza di te quasi tutto sarebbe impossibile», scrive il reale a sua moglie Meghan, tra i ringraziamenti finali – che leggo per primi – mentre decolliamo.

Ma la mia curiosità va tutta alla terapeuta inglese «che mi ha aiutato a sbrogliare anni di traumi irrisolti». Di certo non risolutiva coi problemi di alcol e droga ampiamente raccontati.

L’invidia per Harry però l’ho provata in due occasioni. Per i gin tonic condivisi con la regina madre, all’epoca lei 101 anni e lui 18. E per il festino a casa dell’attrice Courteney Cox, a Los Angeles, quando ha conosciuto l’attore di Batman e in frigorifero alloggiavano scatole di funghetti allucinogeni. Mi consolo pensando che io almeno non ho speso soldi in terapia.

Comunque, sapevo di non dover venire a Londra. Odio la Brexit, i conservatori, la fila al controllo passaporti, io che dal 2016, dopo il referendum, farnetico «non ci vado più». Poi, è sufficiente passare davanti a un vecchio ostello con cucina in comune, a due passi da Earl’s Court che mi ha ospitato l’estate in cui ho imparato a bere birra e un po’ d’inglese, per pensare, ogni santa volta, ma perché mai non sono rimasta a vivere qui.

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