Sono tornato a Palazzo Pitti, la Galleria Palatina di Firenze. Ci sono tre quadri di Caravaggio, di cui uno che non ricordavo. Ve lo dico dopo, qual è. Per adesso sappiate che in un angolo del quadro c’è una vecchia, in alto a destra.

«Io questa vecchia l’ho già vista», mi sono detto, «assomiglia ad altre vecchie di Caravaggio».

E allora, lì a Palazzo Pitti, davanti al quadro che per adesso non vi dico qual è, mi è partita una fantasticheria. Ho immaginato che questa vecchia esistesse, come esistevano tutti i modelli di cui Caravaggio si serviva. Lo dice anche Giovanni Pietro Bellori, uno dei suoi primi biografi, verso la fine del Seicento. Bellori sostiene che la pittura di Caravaggio si regge tutta sui suoi modelli. Caravaggio per lui è uno che sa fare solo quello, copiare modelli. Togli i modelli, non resta niente, non c’è più Caravaggio: “Tolto da gli occhi suoi il modello restavano vacui la mano e l’ingegno”, sono le parole di Bellori. La mano e l’ingegno di Caravaggio: vacui, secondo Giovanni Pietro Bellori, stroncatore seicentesco di Caravaggio. «Certo che ce n’è di gente che si rende per sempre ridicola stroncando i grandi geni dell’umanità», penso quando leggo le recensioni negative dei miei libri.

In posa

Sappiamo i nomi, dei modelli di Caravaggio: Maddalena Antognetti, Anna Bianchini, Francesco Boneri, Mario Minniti, Fillide Melandroni (Fillide: tenetela a mente). Ma di quella vecchia il nome non c’è, l’ho cercato, non si sa chi fosse.

Questa vecchia, a cui daremo il nome di Nunziata, fa i lavori in casa di Caravaggio. È una casa malmessa: Caravaggio, secondo Bellori, è trasandato, non cura l’igiene, gli piacciono i velluti e i vestiti sfarzosi ma non se li cambia, li tiene addosso finché non diventano cenci. Mangia su una vecchia tela dipinta, buttata sul tavolo, lo scarto di qualche suo quadro. Immaginate: mangiare su una tovaglia dipinta da Caravaggio, dove spandi il vino e ci fai le patacche di sugo.

La vecchia Nunziata lì dentro ci viene ogni tanto a rassettare come può. Un giorno, mentre si aggira nella stanza, Michele Angiolo da Caravaggio le chiede di posare per lui.

«E che significa posare, Michelino?», dice Nunziata, che con lui ha un rapporto schietto, come da nonna a nipote.
«Voi vi mettete qua e state ferma», le dice Caravaggio, che la tratta sempre con rispetto. «E io vi dipingo».

«Ma queste sono cose che si chiedono alle ragazze, non alle vecchie. Perché non chiami Fillide?».
«L’ho già fatto e l’ho già dipinta. Ma adesso mi servite voi. Mettetevi sotto la lampada, al resto ci penso io».

«Perché vuoi rovinare il tuo quadro con una cosa brutta come me?»
«Nunziata cara, fatemi questa cortesia. Per me adesso non c’è niente di più importante di voi», dice Caravaggio.
Nunziata esita un poco, poi si mette in posa, così com’è, di profilo, con la cuffia bianca che le fascia i capelli.

A Caravaggio non basta, non è soddisfatto.
«Mi sono mossa?», chiede Nunziata.
«No, è che dovreste fare una faccia».
«Che faccia?»

«Una faccia incuriosita per qualcosa di spaventoso che vi sta succedendo davanti agli occhi».
«Ma come? Incuriosita e spaventata insieme? Non si può».
«Sì che si può», dice Caravaggio.
«E come?»
«Pensate al norcino che sbudella il maiale. Vi fa senso, no? Eppure quando lo vedete siete attratta, non riuscite a voltare la testa dall’altra parte».
Nunziata ci pensa e poi si atteggia. «Così?»

«Lo sapevo che con voi non sprecavo la mia fiducia», dice Caravaggio. «Restate così più che potete».
La vecchia obbedisce, sta in posa, ma non lo sa che cosa stia dipingendo Caravaggio. Solo qualche giorno dopo, quando il quadro è finito, lui glielo mostra.
Nunziata rabbrividisce. «Oddio, sono io questa? E quella che ti sgozza è Fillide? E che? Sto lì ferma a guardarti che muori e non chiamo le guardie?»
«Ma no», dice Caravaggio, «quella è Fillide ma non è lei, è Giuditta, e voi qui dipinta siete Abra, la vecchia balia che le dà una mano a uccidere il nemico, il capo dell’esercito invasore, Oloferne».

«Ma sei tu!»
«Sono io ma è Oloferne».
«Mamma mia, Michelino, che fantasie che hai».
«È la Bibbia, Nunziata».

Un altro quadro

Che Caravaggio facesse mettere sotto la lampada i suoi modelli non me lo sono inventato, lo dice Bellori. Sentite: “Non faceva mai uscire all’aperto del sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria bruna d’una camera rinchiusa, pigliando un lume alto che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo”. Passano le settimane, e nella mia fantasticheria Caravaggio torna a chiedere a Nunziata di posare per lui.

«Per carità, Michelino, non voglio che mi fai fare brutte cose», dice lei.
«E che vi ho fatto fare? Siete stata ferma sotto la lampada per un po’».
«Per diventare un’assassina!»
«Esagerata».
«Complice della tua assassina».
«Vi prometto che stavolta sarà diverso».

Nunziata, che gli vuole bene, accetta.
«Mettetevi come l’altra volta», le dice Caravaggio. «Spaventata e curiosa».
«Avevi detto che stavolta era diverso».

«L’ho detto e lo ripeto. Ma la faccia è la stessa. Solo un po’ più smaliziata. Quello che vedete vi turba, ma vi fa anche piacere guardarlo».
Nunziata si mette di profilo, come quando aveva posato per fare Abra, la nutrice di Giuditta, con la stessa cuffia bianca in testa. Fa la stessa faccia dell’altra volta, solo che ci aggiunge un sorrisetto, lo accenna appena all’angolo della bocca. Caravaggio la dipinge. Passano i giorni, il quadro è finito. Nunziata lo vede e scoppia a ridere.

«Eh, questa sì che sono io!»
«Vi avevo promesso che sarebbe stato tutto diverso», dice Caravaggio, ridendo anche lui.
«Ora sì che mi ci ritrovo!», dice Nunziata.

Situazioni-Cavadenti

È questo l’altro quadro di Caravaggio che ho rivisto tornando a Palazzo Pitti, qualche giorno fa. È noto con il titolo di Il Cavadenti. La vecchia modella, che assomiglia ad Abra nella Giuditta (che invece è conservato a Palazzo Barberini a Roma), è la stessa, la sua espressione è uguale, solo un po’ più compiaciuta.

Nel Cavadenti c’è un praticone in una stanza. Un poveretto è seduto su una sedia. Il praticone gli ficca una tenaglia in bocca e gli strappa via un dente. Il poveretto si aggrappa al bracciolo della sedia e dal dolore fa scattare in alto l’altra mano. Sentiamo il grido strozzato che gli esce dalla gola. «Giacché mai nemmeno un filosofo ci fu che sopportasse il mal di denti con pazienza»: questo lo fa dire Shakespeare a un suo personaggio, in Molto rumore per nulla.

Ai lati, quattro uomini e un bambino stanno a guardare lo scempio odontoiatrico. Nell’angolo in alto a destra c’è l’unica donna presente nel quadro, la vecchia affascinata da quel momento trucido. Forse anni prima ci è già passata, sotto le tenaglie del praticone, e quella scena la turba e la soddisfa, perché il dolore prima o poi riguarda tutti: «Caro mio, adesso tocca a te», sembra dire col suo sguardo. «E se pensavi di restarne fuori, ben ti sta».

Giuditta e Il Cavadenti. La complice Abra e la spettatrice senza nome. Una sproporzione enorme fra loro. Una ha partecipato a un fatto decisivo per il destino di un popolo, l’altra ha assistito all’estrazione di un dente in una bottega sudicia. Fra le due, non ho dubbi, io mi ritrovo istintivamente nella spettatrice del cavadenti. E però Caravaggio mi propone una sfida; mi mostra che le due vecchie sono una sola: quella che partecipa alla missione che salverà la patria, e quella che scruta un’estrazione dentale che non cambierà di un millimetro le sorti del mondo. È sempre Nunziata, o comunque vogliamo chiamarla. E dunque, se io sono la spettatrice del Cavadenti, dovrei essere anche l’assistente di Giuditta. Dovrebbe valere anche per me, questa ambivalenza.

La mia parte scrutatrice di cavadenti la conosco bene. Ma quella che assiste Giuditta? Per quanto vada su e giù con la memoria, non la trovo, non c’è. Situazioni-Giuditta, nella mia vita, nessuna. Situazioni-Cavadenti, tantissime. Magari disturbanti, feroci, spaventose e irresistibili; ma, ammettiamolo, irrilevanti.

Quel che mi ha dato la vita

E voi? L’avete mai vissuta, una situazione-Giuditta? O vi sentite anche voi, piuttosto, una spettatrice del Cavadenti?

A me è questo ciò che è stato dato in sorte, e che io stesso mi sono procurato. Voglio dire che non è tutta colpa della mia epoca. Avrei potuto, per dire, arruolarmi di mia iniziativa nella legione straniera, lavorare per i servizi segreti, fare l’agente sotto copertura, imbarcarmi in una lancia che sperona le baleniere nel mare di Bering, salire a bordo di una nave che raccoglie i naufraghi nel Mediterraneo, curare malati nei paesi poveri, fare il fotoreporter di catastrofi, l’inviato nell’occhio del ciclone. Me ne sono ben guardato. La mia vita non è eroica, è prosaica.

Tenere lo sguardo fisso nella bocca del poveraccio con il mal di denti; analizzare il rapporto di potere fra lui e il praticone con le tenaglie; capire perché questa scena disgustosa è irresistibile per tutti, in che cosa consiste il fascino che impedisce di distogliere lo sguardo mentre la tenaglia strappa la perla marcia dalla gengiva insanguinata. Questo è ciò che mi appartiene.

«Chissà se sta succedendo davvero», mi chiedo mentre vi racconto di Nunziata e Caravaggio, «chissà se nei loro animi sto riuscendo a innescare un cinema interiore», e continuo a leggere ad alta voce, procedo in questo mio chissà, in questa mia insicurezza, ma anche in questa specie di dominio effimero su di voi.


Sabato 10 giugno, alle ore 21, Tiziano Scarpa sarà ospite della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, presso l’Arena dei Bagni Misteriosi del Teatro Franco Parenti, dove leggerà il testo completo qui sintetizzato. A seguire concerto di Frankie hi-nrg mc, in occasione dei 30 anni dell'album Verba manent. Interviene Andrée Ruth Shammah.

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