Il 15 novembre del 1922 nasceva Giorgio Manganelli. Critico letterario, traduttore di Edgar Allan Poe, membro del Gruppo 63, presidente del Comitato di Liberazione, collaboratore dei più autorevoli giornali italiani, in qualità di corsivista e viaggiatore, tra cui il Corriere della Sera, L’Espresso e Playmen: eccone una presentazione largamente difettosa, data la variegatezza del suo genio.

Ma qui, nell’anniversario della sua nascita, si vorrebbe ricordare un’altra faccia del Manga; qui si vorrebbe ricordare il rapporto privilegiato che intercorreva tra lui e gli extraterrestri.  

E sì, perché visto che a suo dire l’Italia è «una fonte inesauribile di aneddoti, come uno zio che beve, un ex-garibaldino, un cugino che studia il moto perpetuo, e uno zio che vuole decifrare l’etrusco», non sarebbe saggio considerare una fuga occasionale su Marte?

Cos’altro si può fare per tener lontana la Patria, «una donnona mamma, vestita un po’ da matta, esibizionista e con un carattere impossibile», se non vagheggiare un’invasione aliena? Certo, sempre che i suoi figli, quegli italiani, «vittimisti, fantasiosi e bugiardi», facciano gola al mostro che scende giù dallo spazio interstellare.

Dall’Italia, il paese in cui «se una ragazza sposa in bianco, si può star certi che il padre o il fratello sono all’ergastolo» e dove gli ospedali trattano il malato come «un burlone che si è tinto le guancie con l’ombretto, si è messo il rimmel sulle labbra e fa finta di svenire», Giorgio Manganelli dall’Italia sentiva spesso il bisogno di scappare il più distante possibile.

L’attesa dei marziani

Approdò alla fantascienza l’8 luglio 1973 sulle pagine de Il Giorno, con un corsivo dedicato agli extraterrestri. Il titolo redazionale, I marziani non arrivarono, allude a un’attesa che lui avrebbe voluto si concludesse diversamente. Con gli extraterrestri «saremmo passati in un aldilà grande come il cosmo; avremmo lucidato le astronavi, portato il cappuccino con le brioches ai governanti celìcoli».

Per lui era Urania, la collana editoriale italiana di fantascienza inaugurata il 10 ottobre 1952 con l’arrivo in edicola di Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke, a pubblicare «i veri libri che rispecchiano i tempi», quei libri che raccolgono «il regesto dei terrori, le angosce, le empietà, le maniacali diffidenze, i soprassalti, di cui, oltre che di pane, noi viviamo».

Nei suoi scritti extraterrestri, le comete hanno ognuna «il suo coiffeur che le cambia pettinatura a seconda del pianeta presso cui indugia» e nella volta celeste vorticano piastre metalliche con incisi geroglifici egizi e giganteschi fogli strappati dalla Smorfia, a patto ovviamente di schivare gli asteroidi ribelli, «quelli che scappano da casa, rispondono ai pianeti maggiori, e scrivono parole sgarbate sulle pareti del sole».

La sua fantascienza inizia dai telefoni di casa, «sono animali, esseri senzienti, sono demoni, che so io, angeli, folletti», e si libra fino al cielo più sorprendentemente alto, «popolato di spaziosi cadaveri, arieti trafitti da sagittari morsi da scorpioni schiacciati da tori dilaniati da leoni annegati nell’infinito cemeteriale acquario del firmamento».

Giorgio Manganelli si lascia stordire dai bagliori dei dischi volanti, si fa distrarre dall’intelligenza matematica dei calcolatori elettronici e quando esce il film tratto da La guerra dei mondi di H. G. Wells va a vederlo al cinema cinque volte, due nello stesso pomeriggio, e in due sale diverse.

Gli ufo, per il Manga? «Una delle grandi invenzioni mitiche delle nostre generazioni», con le loro «luci violette d’una volta, i bruschi sussulti di velocità, il terrore delle foglie, il panico degli animali notturni, i motori che si arrestano, la luce che vien meno».

E peccato che a vederne gli scatti sui giornali, quelle fosforescenze ectoplasmatiche e quei cerchi sfocati, si direbbe che proprio quella notte «le macchine fotografiche avessero scoperto le ambigue delizie dell’alcol».

Il giorno dei Trifidi di Wyndham («forse il massimo come dice una pubblicità di rasoi»), Guerra al grande nulla di Blish, Heinlein e Van Vogt lo esaltavano e al contempo lo calmavano fino a condurlo a «una strana, enigmatica chiarezza». Disse di aver consumato per anni fantascienza, come altri si danno all’alcol o ad altre droghe. Fredric Brown, Jack Finney: autori di science fiction, ma con nomi da bourbon.

«Che ci interessa un’astronave nell’Iowa, o un disco volante a Cape Kennedy? Noi vogliamo incontrare i marziani in via Manzoni, angolo via della Spiga; che quelle tre dita rossastre ci si posino sulla spalla mentre stiamo per acquistare un giornale». Illustrazione di Dario Campagna

La fantascienza nei giornali

E quando, dalle pagine de la Stampa, il giornalista e scrittore Emio Donaggio lo definì impreparato a parlare di fantascienza, la sua replica dimostrò quanto ci tenesse alla rispettabilità nel campo. «E ci vada piano con la mia ignoranza della fantascienza, giacché, fatto ludibrio ai miei amici colti, io sono un patito, uno stravolto, un maniaco di quella letteratura. (...) Dal primo numero di Urania, un quarto di secolo fa, credo non averne mancato uno, e tanti erano sui miei scaffali i testi italiani e americani, i premi Hugo e Nebula che ad un certo punto rischiavo di dover sloggiare gli Ariosti e gli Ovidi».

E rimproverò Donaggio di non essersi preso neanche la briga di leggere il suo precedente corsivo, in cui commentava Guerre stellari, ma di essersi accontentato di farselo raccontare «da un amico balbuziente che doveva correre a prendere il treno».

Nel dicembre del 1973 scriveva su Il Giorno: «Personalmente, sono sempre stato disposto a credere nei dischi volanti, perché sono improbabili, infinitamente allusivi, e soprattutto perché non li ho mai visti». Credeva alla loro esistenza perché non li aveva mai visti.

E il 4 gennaio del 1979, questa volta su La Stampa, ci ritornò su: «Non ho mai visto dischi volanti, e questa è l’unica prova a favore della loro esistenza che sono in grado di addurre. Infatti, se fosse un caso di psicosi collettiva, come qualcuno dice, non c’è dubbio che io ci sarei cascato. Insomma, se non ci fossero stati, io certamente li avrei visti. Ma non li ho visti: dunque non è improbabile che esistano».

Fosse nato qualche secolo prima, non avesse potuto contare sulle navicelle spaziali o sui mostri alieni inabissati nelle fosse oceaniche, avrebbe «creduto all’unicorno, agli ippogrifi, agli ircocervi, ai poteri dell’ametista (preserva dalla passioni) e alle magherie amorose della mandragola».

Tre dita rossastre

Ora, a prestare fede a tutte le sue carnevalate, Manganelli avrebbe davvero voluto incontrarli, i marziani. Se li auspicava in atterraggio nei centri storici delle città italiane. Ne pregustava le manovre, le retromarce stellari, se li figurava con il sudore sulla fronte mentre cercavano un parcheggio, anche a pagamento, a due passi dal Duomo o nei paraggi del Colosseo.

E mai li avrebbe perdonati, se fossero atterrati in una città in cui lui non era di casa. «Che ci interessa un’astronave nell’Iowa, o un disco volante a Cape Kennedy? Noi vogliamo incontrare i marziani in via Manzoni, angolo via della Spiga; che quelle tre dita rossastre ci si posino sulla spalla mentre stiamo per acquistare un giornale (Rumor continua le trattative) in piazza Castello o a Galleria Colonna, e che gli occhi sgomenti della giornalaia ci annuncino l’inizio della fine. E voltarci con calma e dire – a chi? – Era ora».

Per di più che, con l’arrivo dei marziani, a suo dire, si risolverebbe un grattacapo seccante per ogni civiltà che si rispetti: la propria fine. Da Atlantide ai Romani, passando per gli Egizi e gli Etruschi, ogni popolo ha avuto i suoi titoli di coda. Adesso il mondo intero, pur senza rinunciare a una cerimonia con i fiocchi, potrebbe convenientemente levarsi il dente.

Si occuperebbero gli extraterrestri di tutto. Se lo auspicava, Giorgio Manganelli, perché se un giorno non arrivassero i marziani a toglierci d’impiccio, un dubbio imbarazzante striscerebbe tra gli uomini: «Dobbiamo distruggerci da soli?».

Auguri di buon compleanno, Manga, se ci ascolti da lassù. Quaggiù hai appena compiuto centodue anni, il nostro è al solito «un pianeta moralmente, prima che fisicamente, inabitabile», e ancora stiamo aspettando che quelle tre dita rossastre si posino sulla nostra spalla per portarci altrove.

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