Non sappiamo se Marc Augé (Poitiers, 2 settembre 1935 – 24 luglio 2023), prima di chiudere definitivamente gli occhi, lui che li aveva tenuti ben aperti tutta la vita per decrittare il mondo, abbia avuto modo di riflettere sull’ennesima esplosione di violenza nelle banlieue francesi di tre settimane fa.

Si era dedicato con passione al tema e ogni volta che capitava d’incontrarlo non mancava di ribadire un concetto che lo ossessionava. E che chiamava in causa, soprattutto, il sistema educativo: «Ci sono state crepe in quel sistema che non ci sarebbero dovute essere. Tutti sono andati a scuola ma alcuni lo hanno fatto male, si sono persi, fuorviati. C’è stata una tendenza a lasciare che i fratelli maggiori si occupassero dei più piccoli».

Tornare in Europa

Era il risultato di una frattura risalente agli anni Settanta, «quando è cominciato il fenomeno della disoccupazione di massa. I quartieri simbolo della modernizzazione operaia sono diventati rifugi per persone declassate. E se si trattava di magrebini sono diventati simbolo di sconfitta. Un problema che si è riflesso nelle famiglie e ha provocato tensioni, a volte disprezzo da parte dei figli verso i genitori».

La scuola, la famiglia. Erano questi àmbiti il terreno d’indagine sotto casa del grande antropologo che ha ribaltato i cliché della sua professione. I comportamenti degli umani si possono e si devono studiare dappertutto, non solo andando alla ricerca degli usi e costumi di qualche tribù esotica.

Certo era stato in Africa, Costa d’Avorio e Togo soprattutto, o in America Latina, ma aveva capito che gli stessi metodi usati in terre lontane potevano essere straordinariamente utili per indagare la “surmodernità”, le aree evolute dell’Europa metropolitana.

Genio del paganesimo

Compresa la Francia, ovviamente, la terra d’origine che lo aveva issato fino al prestigioso ruolo di direttore dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Ehess), la Spagna e l’Italia, paesi cugini che ha amato e spesso frequentato. Non accontentandosi di rimanere stretto nel suo ambito ma dilatando il suo sapere all’etnologia, la filosofia, la scrittura.

Un intellettuale a tutto tondo la cui opera, se non era politica nel senso stretto, era strutturata “politicamente”. Avendo come sostrato quell’idea forte della laicità maturata, per opposizione, proprio studiando le religioni.

Non per caso una delle prime opere che lo ha reso famoso ha per titolo Genio del paganesimo (1982, chiara citazione per contrasto al Genio del cristianesimo di Chateaubriand), in cui evidenzia come il paganesimo non oppone lo spirito al corpo né la fede al sapere e postula una continuità tra ordine biologico e ordine sociale.

Non-luoghi

Lo sbocco di tante riflessioni si sostanzia nel 1986 con Un etnologo nel metrò, un viaggio nel sottosuolo dove Marc Augé indaga gli individui che frequentano il fitto reticolo parigino come fossero indigeni della post-modernità, ne svela le solitudini, li mette in relazione con i nomi delle fermate che alludono a passati stratificati, storici o geografici che siano.

E l’acme della sua produzione sfocia nel 1992 con Non-luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, l’invenzione di un neologismo che entrerà nei vocabolari dopo essere entrato nel linguaggio comune.

Centri commerciali, aeroporti, autostrade, sale d’aspetto, ascensori, sono gli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali o storici e sono in antitesi con i luoghi antropologici.

I non-luoghi sono la rappresentazione fisica dell’epoca in cui viviamo caratterizzata dalla precarietà assoluta e dall’individualismo. Sono prodotti usa e getta, di puro consumo, che nessuno abita e che tutti sfruttano.

Zone di transito come il loro opposto, i campi profughi che non simboleggiano il benessere della società opulenta ma l’impossibilità per i migranti di conservare i luoghi d’origine e di raggiungere una meta dove costruire una nuova identità impossibile.

Non-tempo

Nell’evoluzione perenne di un uomo onnivoro, ghiotto di ogni conoscenza, il passo successivo riguarda il tempo. Proprio Che fine ha fatto il futuro? Dai non-luoghi al non-tempo (2008) è il titolo che segna l’ingresso in una dimensione più filosofica.

Viviamo il presente in una maniera così ingombrante che il qui ed ora si è ingoiato il passato, la precarietà con la sua mancanza di prospettive ha annullato il futuro. E, biologicamente, l’allungarsi delle prospettive di vita, e di una vita in buona salute, ha cancellato la vecchiaia tanto che senza indugi esclama: «La vecchiaia non esiste».

E, addirittura, in un’intervista a Libération: «Più passa il tempo più ho la sensazione che la morte non esista». Nonostante chi lo ha frequentato ultimamente ha potuto notare le offese degli anni sul suo incedere claudicante.

La bicicletta

C’era, in Marc Augé, un ottimismo di fondo, un dolce abbandonarsi, ad esempio, ai piaceri della buona tavola, una volontà ferrea di gustarsi ogni momento ed ogni occasione.

Una convinzione profonda nella capacità delle persone di potersi reinventare, simboleggiata, ad esempio, da un oggetto di uso comune. Il bello della bicicletta (2008), secondo lui trasvolata da “mito maturo” a utopia ecologista e democratica.

I ciclisti come portatori di un nuovo umanesimo che annulla le differenze di classe, induce all’uguaglianza, riconduce l’esistenza delle nostre città a ritmi più sostenibili. L’andamento lento della pedalata è la cadenza sulla riscoperta dei luoghi, antidoto contro i non-luoghi e, in definitiva, anche il sogno di un avvenire più conforme a ciò per cui (anche) siamo nati: la contemplazione.

Per tutto questo mancherà Marc Augé, certo analista impietoso delle storture della contemporaneità, fustigatore delle disuguaglianze, grillo parlante delle nostre aberrazioni. Ma sempre con lo sconfinato sorriso sulle labbra di chi in fondo conserva una speranza nel genere umano.

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