Nel cuore medievale di Parigi c’è un palazzo, anzi un hôtel particulier, che da molti anni è un museo. L’ingresso è gratuito; se ci passate davanti e avete tempo, come si conviene a chi cammina per le incantevoli strade del Marais, dove è quasi obbligatorio, ancorché non sempre possibile, bighellonare più che si può, mi permetto di consigliarvi di entrare.

Il fatto è che al musée Carnavalet, il museo della storia della città, si trovano cose incredibili, inaspettate; è una delizia, quel posto, anche per chi già lo conosce. È come saltare fuori dal proprio tempo, solo al prezzo di quei pochi passi che dalla strada, rue de Sévigné, con i suoi negozi di vestiti troppo cari, i parrucchieri di grido e tutto il resto, portano a varcare il portone, attraversare il piccolo giardino ben curato, e ritrovarsi alla deriva in un enorme tempo collettivo, il tempo della Storia; e andare alla deriva è stranamente dolce, attraversando le stanze del palazzo antico dopo aver lasciato armi e bagagli nel guardaroba. Si possono vedere le insegne di botteghe di artigiani medievali; i giocattoli con cui giocò, nella prigione del Tempio, il piccolo Luigi XVII, mentre fuori infuriava il Terrore, prima di morire di stenti. Un modellino della Bastiglia intagliato proprio in una pietra della spaventosa prigione, per poter essere spedito come souvenir rivoluzionario ai compagni statunitensi che si liberavano dal dominio degli inglesi.

E si può vedere anche una stanza da letto, perfettamente ricostruita – per la verità, le stanze sono due, una dirimpetto all’altra. Una è quella di Anna de Noailles, scrittrice (e principessa) che morì nel 1933 e fu seppellita al Père Lachaise, senza cuore – in senso letterale: il suo cuore riposa in un cimitero dell’Alta Savoia, dentro un tempietto che le rende omaggio. L’altra è la stanza di Proust, ricostruita nei dettagli, con i suoi oggetti – le sue penne, lo scrittoio. C’è persino un bastone – un bastone da passeggio – appoggiato in maniera un poco innaturale, fra il letto e la scrivania. Un paravento di esotismo orientale, una liseuse in primo piano, di velluto piuttosto liso. Ma, soprattutto, il letto: un piccolo letto con la testata brunita. Copriletto blu, quasi da hotel. Ricordo ancora come mi sono sentita la prima volta che l’ho vista, questa stanza.

Un senso di commozione

C’è qualcosa di soffocante, forse dovuto al fatto che, affastellati in pochi metri quadri, sono riuniti gli arredi di stanze presumibilmente più grandi: quella di boulevard Haussmann, rivestita di sughero per attutire i rumori esterni – i rumori della notte mentre Proust scrive, quelli del giorno, mentre dorme – e l’ultima, quella dei mesi che precedono la morte nel 1922, in rue Hamelin, mantenuta senza riscaldamento per prevenire le crisi d’asma. La storia di come questi mobili, poi, siano approdati al museo, è a sua volta una meravigliosa storia di devozione e di avventura, nel senso proprio di una serie di coincidenze fortuite che portarono Jacques Guérin, collezionista e fabbricante di profumi, a recuperare attraverso una lunga ricerca fra discendenti e rigattieri tutti gli oggetti che la famiglia diffidente e poco amorevole del fratello di Marcel, Robert, aveva disperso dopo la sua morte.

Una storia (raccontata con dolcezza da Lorenza Foschini ne Il cappotto di Proust. Storia di un’ossessione letteraria) che vale la pena conoscere, perché da quella stanza ricostruita al musée Carnavalet spira, è vero, un che di opprimente; ma anche, e soprattutto, un senso di commozione, quasi palpabile. Che nasce dall’usura del velluto della poltrona, della liseuse; dal senso di fatica compresso in ognuno degli oggetti – l’abat-jour, il bastone; dal sottile piacere feticistico di pensare che tutti quei reperti, pazientemente recuperati da Jacques Guérin, siano proprio gli originali; dall’idea del contatto quotidiano con il genio, con il demone della scrittura che ha abitato per notti e notti proprio quel letto.

Un’altra cosa che ho pensato, la prima volta e le molte successive che sono tornata a visitare la camera ricomposta nel cuore di un palazzo antico, segreta ai passanti che, fuori, si godono il Marais, le luci soffuse dei café, il cicaleccio di quelli che fumano, che vivono, era che non avremmo – non identico, almeno – un libro colossale come Alla ricerca del tempo perduto, se non fosse per quel lettino così modesto, quasi misero, con l’aria di essere tutt’altro che comodo.

Il senso di una vita segreta degli oggetti, una vita che li consuma, fatta di cure e minime usure quotidiane, colpisce – non come uno schiaffo: come una carezza – chi si ferma nel ventre del palazzo a guardare quei mobili in esposizione che raccontano gli ultimi anni di vita di uno scrittore eccezionale. Anni ritirati, schermati dal mondo dai pannelli di sughero che gli hanno permesso di raccontare il mondo e la vita, sfiorando i segreti più indicibili dell’esperienza che da esseri umani abbiamo del vivere: il mistero del tempo, il suo dolore.

La governante biografa

Sarà un caso che proprio Céleste Albaret – la governante che si curò di assistere Proust negli anni cruciali della sua vita, negli anni dedicati alla scrittura selvaggia, e fino alla morte – sia stata la sua migliore biografa? Penso che questa sia la replica più efficace a chi pensa che Proust sia uno scrittore per snob, uno scrittore cervellotico che si legge solo per far bella figura o darsi arie da intellettuali. Céleste Albaret, nella Recherche compare – mescolata ad altre domestiche di famiglia, come la vecchia Félicie, che era stata a lungo a servizio dei genitori di Marcel – nel personaggio di Françoise, per le leggi di trasfigurazione in base alle quali i personaggi che popolano questo romanzo straordinario sono ispirati in modo spesso trasparente a personaggi della vita reale di Marcel Proust, ma nel romanzo portano altri nomi, come se quello racchiuso dentro al libro fosse un mondo parallelo al nostro, un mondo analogo ma non identico, che è poi il meccanismo segreto della letteratura; fra l’altro, nel caso di Céléste, una sua omonima, con il nome reale, come in un omaggio cortese, compare in Sodoma e Gomorra: ma senza avere niente a che fare, a differenza di Françoise, con la sua personalità.

Céleste Albaret, dicevo, deve senz’altro essere stata una donna di grande intelligenza; certo però non si tratta di una studiosa. Eppure, ha capito perfettamente Proust, e lo racconta con tenerezza commossa e perspicace nel suo Monsieur Proust. L’ha capito, per essersi presa cura di lui. Quel lettuccio al musée Carnavalet ci dice anche di questo: è un letto singolo, un letto piccolo. Ha qualcosa del letto di un bambino – del resto, come si capisce molto bene procedendo Dalla parte di Swann, i letti dell’infanzia, per Proust, hanno una certa importanza.

Proust è un bambino e un vecchio insieme, è un bambino saggio che sa tutto, un bambino capriccioso che non vuol sapere niente, e insieme un giovane uomo, e un sapiente antichissimo; è una moltitudine di io diversi e riesce nell’incantesimo di farli esistere uno alla volta, di farceli sfilare davanti agli occhi in successione. Credo che sia questo, fra i tanti, l’aspetto che più mi impressiona della sua opera. È come se Alla ricerca del tempo perduto riuscisse in un’impresa davvero titanica, come se realizzasse il sogno proibito di chiunque abbia avvertito la tirannia della vita che passa, desiderato ribellarsi all’idea che le cose finiscono: dominare il tempo, lasciandosene dominare.

Fissare la voragine

Marcel Proust, l’uomo bambino, il nevrotico, lo snob, l’omosessuale, il dandy, l’asmatico, il morto troppo giovane, lo scrittore che scriveva sdraiato in un lettino a una sola piazza, sospeso fra sonno e veglia, dal suo piccolo letto come da un tappeto magico ha sfidato le leggi del tempo, e l’ha vinto, l’ha sconfitto. Una vittoria perfettamente inutile, e perciò fondamentale. Il tempo perduto, alla fin fine, è perduto davvero; ma che vertigine, poter fissare la voragine, guardare nell’abisso dei giorni persi, sentire la vita anche nel dolore di dissiparla, ora dopo ora – e tutto grazie a lui che si è lanciato in quest’impresa folle, meravigliosa. Pensate alla vostra infanzia, ai pomeriggi d’estate; la luce che declina al tramonto, una passeggiata in campagna.

Davanti a quest’uomo capace di essere bambino pur con la coscienza del dolore della fine dell’infanzia, a questo scrittore che osa sfidare il più sovrumano dei misteri fra i quali si snoda l’esperienza umana – il destino di un tempo finito, che scorre in un unico senso eppure, per cortocircuito, qualche volta ci illude di esser fermo come una freccia librata nell’aria, a ogni istante, è immobile in un punto sospeso – ci rendiamo conto di quanto un’esperienza lontanissima, come la sua, di bambino cresciuto in una famiglia dell’agiata borghesia – madre ebrea, padre cattolico – all’indomani della caduta del Secondo Impero, fra l’epoca della Comune e la Terza Repubblica, mentre è in agguato il dramma dell’accusa degradante e falsa a Dreyfus e il trauma collettivo della Prima guerra mondiale, possa rivelarci delle nostre esperienze di bambini di un altro secolo, di adulti di un nuovo millennio. La sua vita lui ce la offre nel suo racconto, minuzioso, idiosincratico, preciso fino all’estremo; e proprio perché è così sua, prende un respiro universale che altrimenti non potrebbe avere.

Difficilmente un romanzo ha saputo rivelare tanto, della natura del tempo, del potere del prestigio, della crudeltà dell’amore (raccontata oltretutto per interposta persona, quasi a mostrare quanto tutte le cose più private, più peculiari, possano dire anche a chi non le ha vissute; a chi, semplicemente, le carpisce attraverso la forza perforante del racconto: per questo, io credo, l’amore lo dice la storia di Swann e Odette, più che quella di Marcel e Albertine, che ne è il proseguimento e la conseguenza).

Succede tutto

Ma attenzione – non bisogna pensare che sia un libro noioso. O didattico. O teorico. A chi sostiene che succede poco, che tutte queste pagine per raccontare cosa, poi?, io non so mai cosa rispondere, francamente. Perché è vero; non succede molto, e però succede tutto. C’è una folla di personaggi che non si possono più dimenticare. Vecchie zie, cocottes, elegantoni, duchesse con il naso a becco, professori pomposi, pittori rivoluzionari, compositori sublimi con figlie perverse, piccole brigate di ragazze insolenti. Dandy adorabili, omosessuali insospettabili, governanti devote; Odette de Crécy la mondana, con il suo nome falso come l’ottone e la sua somiglianza verissima con un affresco di Botticelli. La signora Verdurin e i suoi leggendari mal di testa, le sue pose, le sue trame, il suo Wagner. Gli occhi raggianti di Albertine, la nonna che ama la natura e la pioggia. Non dico tutto, ma moltissimo, di quello che so dell’amore, della morte, del tempo, della gelosia, dell’invidia, del desiderio di essere diversi da quel che si è, l’ho imparato da Proust.

Alla ricerca del tempo perduto è il romanzo che forse più di ogni altro romanzo mai scritto riesce a trasfigurare la realtà, a trasformare lo sguardo di chi lo legge sulle cose – anche quelle più inafferrabili; come il tempo. Anche per questo, è un libro che per essere letto di tempo ne richiede molto; ma il tempo che si prende, il tempo che disperde, il tempo perduto che esige, lo restituisce moltiplicato. La mole del libro, non è certo un segreto, ha spaventato e ancora spaventa molti: c’è chi non se la sente di affrontare le quasi quattromila pagine, i sette volumi. Chi rimanda la lettura a un momento in cui non avrà niente, o quasi, da fare, momento che in genere non arriva mai. Ma l’ascolto cambia le cose.

Le sette voci che leggono Alla ricerca del tempo perduto si offrono, come altrettante guide, ad aiutare chi si accinge alla scalata a raggiungere la vetta – e di conquistare questa vetta, vale proprio la pena. Oltretutto, per ascoltare non c’è nemmeno bisogno di aspettare di non aver nulla da fare: si può farlo camminando, guidando; prima di dormire o con il caffè della mattina. Ascoltarlo letto ad alta voce è come offrire a questo libro mastodontico un respiro epico, da racconto ripetuto, unico e ripetibile all’infinito, perché riguarda chiunque porti su di sé il segno dell’umana condizione.

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