Arriva in Italia l’attivista lesbica boliviana Marìa Galindo con il suo Femminismo Bastardo (Mimesis edizioni), chiamata dai centri sociali e autogestiti come CSOA Forte Prenestino, il Giardino Liberato, Zamp3 Mostruos3, Tank, Teatro Refugio Scoppiat3, CSOA Gabrio, Rete Diffusa So-l3, antiere e CSO Pedro, con prima data il 7 febbraio al Forte Prenestino (Roma).

Introdotta da Paul Preciado, per Galindo «il femminismo può essere solo bastardo perché sorge da un luogo socialmente conflittuale, dolorosamente irrisolto, ardentemente illegittimo e mille volte proibito». 

Cosa vuol dire riconoscere la propria origine violenta per persone razzializzate, donne, lesbiche, trans all’interno di un sistema oppressivo che utilizza il binarismo come strumento di controllo e normativo del sesso, del genere e della razza intesa come costrutto?

Riconoscerla è un punto di partenza: io sono boliviana e la società boliviana è molto fissa nel binarismo che descrivi. Le persone, la popolazione, la società si identifica o come indigena oppure come bianca. Ambedue sono forme di auto-identificazione disperate: chi si identifica come indigena deve compiere dimostrazioni quotidiane, chi si identifica come bianca fa lo stesso attraverso atti di violenza razzista. Io rispetto molto l’auto-identificazione indigena, ma credo che in questo binarismo razzista la postura del bastardo le metta in discussione entrambe. Per me l’origine dei problemi razzisti è la violenza e ci sono due possibilità: o interpretare la violenza come un fenomeno fuori dal sé, dove siamo la vittima; oppure in questo bastardismo interpretare la violenza come origine, come ciò che abbiamo sotto pelle. Questo mi porta a interrogare la violenza fuori dal binarismo victima-victimidator (vittima-vittimizzatore). Al contempo, questa rivendicazione della violenza come origine ci permette di ripensare alla tesi del mestizaje: c’è una mistura e questa mistura è ottima, ci sono due parti che si sono unite e bisogna conciliarle.

Nel tuo lavoro c’è una grande pratica di linguaggio, che non è mai cosmetico ma politico. In un sistema che ci etichetta, cosa significa usare o rivendicare le etichette dall’oppressore?

Il linguaggio è per me un campo di creazione continua e non di riproduzione di quello che ci è imposto. In questa società del sur (sud) è molto frequente: noi parliamo le lingue dei conquistatori, ma al tempo stesso non parliamo spagnolo. Noi parliamo un linguaggio fatto di una continua rappresentazione dei popoli indigeni. Questo spagnolo non è solo diferente, ma subisce una dequalificazione rispetto allo spagnolo considerato corretto. Quando arrivi a Madrid come migrante, ti viene detto “non ti capisco”. È vero – rispondo – “non ci capiamo perché tu non vuoi capire”, perché c’è un rapporto di disqualificazione. Al contrario, queste forme espressive sono un tesoro perché sono un altro linguaggio, un altro mezzo di esprimersi e sperimentare il mondo.

In Italia assistiamo a una repressione crescente nei confronti delle donne, delle persone migranti e senza cittadinanza, delle persone queer e trans. Tu scrivi che bisogna «smettere di parlare di diritti e cominciare a parlare di utopie. Smettere di parlare di inclusione e passare a parlare di rivoluzione. Smettere di parlare di femminilizzazione e parlare di depatriarcalizzazione». Quali sono gli orizzonti della lotta per la libertà?

L’ho scritto prima della Meloni – ride. Noi siamo consapevoli che la femminilizzazione è un’operazione del patriarcato e che una proposta fascista può includere anche donne, persone gay, queer, indigene, afro. L’identità in sé non vuol dire niente. In Europa, ho vissuto anche in Italia, come straniera non avevo diritti ma una finzione dei diritti. I diritti che abbiamo o non abbiamo sono sottomessi a un chantaje (ricatto): te li do o non te li do. La storia dei diritti è la storia di un gioco d’oppressione. Tutte le organizzazioni sociali parlano dell’ottenere i diritti. In Italia questo è chiaro: quando contro una proposta fascista –  loro fanno un’offerta –  tu proponi solo uno speech dei diritti, questo non serve a niente. Dobbiamo proporre un’utopia, dobbiamo essere capaci di sederci tra noi e chiederci qual è la nostra proposta? Cos’è la libertà? Perché la destra parla di libertà e noi no?

Quello che descrivi in Bolivia ha dei punti in comune con quanto succede in Italia. Alla crisi identitaria che abbiamo attraversato, l’estrema destra risponde con la sua idea normata di famiglia, di donna, di decoro, di società. Come resistere e disobbedire?

Noi abbiamo un concetto molto bello che si chiama politica concreta. Questa politica concreta è la capacità di mettere tutti quei sogni in una forma che chiunque possa capire. Quella forma è l’agire. Per esempio, venerdì hanno preso una donna madre e hanno detto che è cattiva, che ha finto il suo sequestro e ha messo in pericolo un uomo e deve andare in carcere. Noi abbiamo preso la sua difesa. Oggi dopo questa interview andremo nell’ufficio de el fiscal (il magistrato) a sostenere questa donna. Io potrei non andare al fiscal starmene a casa e avere da me tutta la teoria sul controllo della maternità. Ma a che serve che abbia questa teoria e non faccia un’azione che tutti possano capire? La società è stanca degli speech. La postura teorica è importante, ma non senza un’azione concreta. La politica concreta può creare empatia. Come Mujeres Creando abbiamo creato quest’empatia mescolando diversi soggetti: una donna, una madre, una persona trans, una persona afro, tutte insieme.

Con Omespro (Organizaciòn de Mujeres en Prostitucion) fondata da Mujeres Creando avete strappato una legge municipale di regolazione del lavoro sessuale autogestito, redatta collettivamente e rivendicata davanti al governo municipale di la Paz. Qualcosa di storico. Com’è il rapporto con le istituzioni?

Un rapporto stancante. C’è un estancamento nel rapporto con lo stato e le istituzioni e hai bisogno di agire. Torna la politica concreta: se io vado da un’istituzione a parlare di eteropatriarcato o colonialismo, nessuno mi ascolterà oppure mi ascolteranno senza che ci sia cambiamento. Le cose cambiano se io vado a chiedere conto del loro comportamiento, per esempio, a proposito di Carmen, una persona descapacitada (disabile) e chiedo una soluzione. Loro non fanno che dirci che sono il popolo e lo rappresentano. Sappiamo che non è vero, ma è Carmen che lo rende tangibile. Noi dobbiamo dire loro che vogliamo una soluzione per Carmen oggi: così stiamo mettendo in discussione il paradigma disabilitante non a livello teorico, ma pratico.

Per te, da anarchica, il rapporto con le istituzioni è quella di metterle davanti alle proprie responsabilità?

Sì perché non è soltanto una richiesta, ma molto di più. È la dimostrazione che l'istituzione rappresenta un'élite e che è a servizio di un'élite. Sono lì per escludere e per loro non sei importante, non sei nessuno, non esisti. Faccio radio quattro giorni a settimana e prendo ogni volta un caso ben documentato da portare all’attenzione. C’è giustizia nella società boliviana? No. Ma come posso dimostrarlo? Posso dimostrare che non c’è giustizia prendendo il caso di Carmen, di Julia… in quel lavoro concreto e quotidiano è possibile dimostrare cose profonde. Mi ricorda quel racconto di Kafka sulle porte della giustizia: tu non stai a casa, devi essere davanti alla porta della giustizia per dire: è chiusa questa porta!

A Roma presenterai il tuo libro in uno spazio occupato e autogestito: il CSOA Forte Prenestino. Questi spazi ci restituiscono luoghi abbandonati per farne case rifugio, case comunitarie queer, biblioteche, sportelli, servizi, luoghi di resistenza e di festa; e vivono una crescente repressione istituzionale. Perché lo hai scelto?

Il Forte ha scelto a mì. Sono molto emozionata di questo tour in italia. Il mio lavoro ha molto senso nella società boliviana – venite, vieni, venite in Bolivia! – è una gran mistura di lotte e io ci dedico molte ore. Quando ho ricevuto quest’invito ho deciso di accettare, perché anche questi momenti sono importanti per ripensare e riflettere altre realtà. L’anno scorso sono stata alla Biennale di Venezia, so che c’è una grande distanza dal Forte, ma credo che occorra andare ovunque. Avrei potuto dire che la Biennale di Venezia è borgesa e c’era un grande dibattito sulla partecipazione di Israele. Io sono andata con mille fazzolletti sul genocidio. Tutta la mia maleta (valigia) aveva questi fazzoletti: nessuno aveva la forza per dirmi questo è vietato. È solo un gesto, ma penso sia importante non fare un’auto-censura sui luoghi, andare ovunque, andare in piazza, in strada, nelle istituzioni e chiedere giustizia ogni giorno.

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