Spesso sentiamo parlare della maternità come se fosse una «missione economica della donna». Dietro il velo razionale dei numeri, della demografia, degli equilibri previdenziali di lungo periodo, è così che ne parla la politica. Questa impostazione mi sembra il fondo del barile del pensiero sull'essere umano. Tutti e tre i concetti: missione, economica, della donna. Proverò ad affrontarli in quest’ordine.

Libertà e desiderio

Diventare genitori per scelta, lungi dall’essere una missione, è anzitutto l’espressione di un desiderio. E il desiderio, qualsiasi sia, non si insegna e non si impara. Non può dunque essere assimilato a una missione, a un incarico magari corredato di istruzioni precise.

Il desiderio vive dentro di noi nelle regioni più remote, si nasconde come una risorsa scarsa. È un minerale prezioso o se si preferisce una piccola forma di vita celata, segreta, di cui possiamo prenderci cura. Con fatica. Sappiamo di volere certe cose e non altre, lo sappiamo per istinto, fin dalla nascita, ma non sappiamo esattamente quali siano. Passiamo la vita a capire cosa vogliamo, a conoscere le nostre fantasie. Un giorno, forse, un frammento di questo desiderio generale prende una direzione specifica e assume una forma. Per esempio, la forma della maternità e della paternità volute.

Diventare genitori non ha molto a che fare con la libertà, di certo restringe gli spazi e il tempo a disposizione. Ma nessun desiderio ha a che fare con la libertà, non direttamente, non per forza. C’è infatti un equivoco, sul tema del rapporto fra libertà e desiderio. Tendiamo a confondere le cose. La libertà ha un aspetto meccanico: «Faccio come mi pare, entro certi limiti stabiliti». Somiglia a un disegno, ha qualcosa di altamente visibile, e soprattutto si muove con scioltezza. Il desiderio non ha un disegno preciso, invece. Spesso anzi non è proprio rappresentabile. Non è neppure presentabile: si mostra al mondo indossando panni sporchi, o addirittura nudo. Quanto al sapersi muovere, il desiderio talvolta prospera nella vischiosità. Non si fa problemi a cadere rovinosamente, e sa di poter essere deriso. Ne soffre, ma lo sa. Non è strano provare sentimenti ambivalenti, persino di vergogna, verso i propri desideri.

Il desiderio, infine, permette ampie possibilità di pentimento. Chi non ha voluto fortemente qualcosa per poi pentirsene nel momento in cui questa cosa arriva? Stai attento a ciò che desideri, si dice. Accade anche con i figli, sebbene sia considerato indicibile. Eppure, nonostante possa portare alla pesantezza del pentimento, il desiderio non è brutto, non è un male, questo – almeno io – non lo dirò mai. È una spinta vitale fortissima. Non nel senso che il desiderio ami la vita sempre e comunque, perché esiste anche il desiderio di morte, ma nel senso che ci spinge a vivere fino alle estreme conseguenze, e lo fa perché vuole farne esperienza con noi. Questa è la natura più profonda del desiderio: questa tenerezza nei nostri confronti. Un meccanismo che si nutre di ogni possibile esperienza e di ogni ambiguità pur di starci accanto. Ci vuole bene, il desiderio, ci vuole bene in questa maniera un po’ stupida, così umana, ingombrante, estrema. E i figli arrivano da questo luogo oscuro, misterioso, poco decifrabile e pieno di fascino.

L’aspetto interessante, però, è che oggi il desiderio viene attaccato da ogni parte. Viviamo nell’epoca della libertà (quell’entità che si muove con scioltezza, dicevo), ma non nell’epoca del desiderio. Viviamo una liberazione apparente del pensiero e dei comportamenti, abbiamo accesso a innumerevoli stimoli e forme di intrattenimento, non conosciamo limiti, ogni cosa è immaginabile e ottenibile almeno sinteticamente. «Se una cosa esiste, esiste la sua pornografia». A fronte di questa ricchezza di possibilità, si prova un senso di vertigine. Talvolta ci si paralizza, la sera, sul divano, alla ricerca di una serie televisiva da vedere nella selva della vastissima offerta di contenuti.

Naturalmente si tratta di una libertà parziale, di consumo, che non prevede l’accesso al potere. E che non contempla rivoluzioni profonde. Però esiste e riempie la nostra vita, divora il tempo che abbiamo. «Non ho mai tempo», ci troviamo a pensare, sebbene le nostre vite siano in certi casi assai meno ricche di obblighi rispetto alle vite di cento anni fa.

Senso di comunità

Per reazione a questa vertigine, forse, e alla frustrazione che ne deriva, tendiamo ad apprezzare le forme ordinate, apparentemente ordinate. Vanno di moda i meccanismi e i numeri. Il mercato e le misurazioni. L’ambizione di controllare i fenomeni e in definitiva la vita attraverso le misurazioni.

Quando si propone una nuova etica sociale che «metta al centro la famiglia» (sorvolo di commentare l’espressione e i suoi risvolti) si finisce spesso per sentir dire frasi il cui significato finale, sintetico, è «Bisognerebbe rendersi conto che i figli degli altri possono pagare le nostre pensioni». Come se il senso di comunità potesse in fondo germogliare solo da uno scambio, perché ormai si è persa qualsiasi speranza di fare altrimenti. Come se i figli futuri non fossero «portatori di nuove visioni e idee» (per citare Ginevra Lamberti in un articolo recente), ma mere componenti di un ingranaggio economico. E non componenti esistenti, che sarebbe già triste di suo, e che è a tratti il destino degli umani già nati, ma manufatti da “ordinare” per il futuro funzionamento disciplinato del sistema. I figli come beni da produrre. Dove sono i fornitori? Cerchiamo i fornitori.

Questo è, come minimo, un territorio etico di scarsa allegria. (In realtà non è un territorio etico, ma facciamo finta che lo sia, diamo corda). E io quando penso ai figli, al desiderio di averli (per chi questo desiderio ce l’ha, non è obbligatorio), penso all’allegria. Alla fatica, alle rinunce, alle frustrazioni, ai lati oscuri, all’egoismo che certamente desiderare dei figli si porta dietro, ma anche all’allegria. Al senso di possibilità non inteso come infinita libertà, ma come moltiplicazione delle voci in campo e degli scenari.  

Il linguaggio dei numeri si configura dunque, in questo caso, come un linguaggio ostile, estraniante. «Analizziamo il fenomeno della denatalità». Frasi che allontanano. Ma il desiderio di avere figli non si sviluppa, non può svilupparsi, in un ambiente ostile. C’è qualcosa di istintivo in questo: avere figli richiede un ambiente accogliente, in senso pratico ma anche culturale. Tuttavia «L’alienazione è fra noi senza che se ne possa attribuire la causa a una guerra», come dice Vivian Gornick.

Il senso di comunità, in effetti, è quasi inesistente. La pandemia ha mostrato le difficoltà che abbiamo nel fidarci gli uni degli altri, la circospezione che ci guida, il timore costante di essere traditi quando gli altri si comportano diversamente da come noi pensiamo sia giusto. Sono emersi gli egoismi, le tensioni. Ma se non è possibile fidarsi, anche a un livello semplice, basilare, come quello della preservazione della salute durante una pandemia, è difficile che si creino condizioni non ostili per fare più o meno qualsiasi cosa.

Triplice alienazione

È in questo contesto inospitale che prevalgono, per pigrizia e per rabbia mai risolta, forme nostalgiche di visione della famiglia che pongono “la donna” al centro del fenomeno della denatalità, e la incolpano, persino quando la denatalità abbia, comunque, giustificazioni pratiche legate allo stato delle politiche sociali. Una triplice alienazione: la donna non vuole svolgere la sua missione, la donna mette a repentaglio il meccanismo economico, la donna sbaglia nel modo in cui fa la donna. Tradisce sé stessa e neppure se ne accorge. La sua felicità apparente, quel suo sorriso divertito, è distruttivo.

Come se crescere dei figli fosse una questione che trova nella gestazione il suo senso intero e i suoi soggetti interamente responsabili. Una visione che non ha, fra l’altro, pieno riscontro nella realtà. Fortunatamente oggi molti uomini sono disposti ad assumere un ruolo attivo nella crescita dei figli. Ci tengono, con allegria. Questo desiderio che finalmente, anche se faticosamente, si libera e diventa visibile, è solo un esempio della complessità positiva che possiamo ottenere se a tutti è dato il pieno riconoscimento delle proprie potenzialità non solo biologiche, ma anche umane e di cura. In quest’ottica, credo, è possibile immaginare la costruzione di una comunità vivace e accogliente. Oppure possiamo continuare a soffocare nella retorica e a ignorare i desideri, preparandoci a una regressione certa. Non solo, e non principalmente, demografica.

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