Nel cantiere di Mattmark non ci si fermava mai. Si lavorava 24 ore su 24, 6 giorni la settimana. Contrattualmente, un operaio lavorava 59 ore la settimana: «se volevi, e molti di noi l’hanno fatto […] anche 15-18 ore al giorno». Negli anni Sessanta, in Svizzera – paese che ha visto una crescita economica senza precedenti dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni Settanta – questa era la quotidianità. Erano gli anni nei quali l’emigrazione si andava progressivamente meridionalizzando.

L’Appennino iniziava la sua lenta e irreversibile desertificazione. Dall’Irpinia all’Abruzzo, dalla Sila alle coste salentine, il Mezzogiorno si svuotava senza sosta, mentre la piccola Svizzera accoglieva da sola quasi il 50 per cento dell’intero flusso migratorio italiano: più di 2 milioni e mezzo di persone, dall’immediato secondo dopoguerra e fino agli anni Ottanta. Molte furono impegnate nella costruzione di grandi opere, come la diga di Mattmark.

Lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, che ancora oggi rappresenta la fonte principale di approvvigionamento della Confederazione, fu fino agli anni Sessanta quasi l’unica risorsa energetica – prima di essere affiancata dal nucleare – grazie alla quale crebbe l’industria e venne accelerata la modernizzazione del paese. E proprio mentre si stava per raggiungere un altro traguardo della nouvelle politique d’industrialisation, inaugurata negli anni Cinquanta, nel Vallese, in cui si trovano due terzi dei ghiacciai del paese e storicamente una delle «individualità» più particolari dell’intera Svizzera, accadde l’irreparabile. In 30 secondi cambiò la storia.

Lunedì 30 agosto 1965 una valanga di più di 2 milioni di metri cubi di ghiaccio seppellì 88 dei lavoratori impegnati nella costruzione della diga in terra più grande d’Europa. Di questi, 56 erano italiani. Come a Marcinelle, la tragedia determinò un momento di cesura nella lunga e travagliata storia dell’emigrazione italiana, segnando un punto di non ritorno. La catastrofe suscitò molto scalpore in tutta Europa: per la prima volta, stranieri e svizzeri morivano l’uno a fianco all’altro.

Fu la provincia di Belluno, con 17 vittime, a essere la più colpita, insieme al Comune di San Giovanni in Fiore (Cosenza), che perse 7 uomini. Il dolore toccò tanti borghi di provincia da Nord a Sud, fino a quel momento sconosciuti, come Acquaviva di Isernia, Gessopalena oppure Bisaccia e Montella, Gagliano del Capo, Tiggiano e Ugento e, ancora, Uri, Senorbì e Orgosolo, Castelvetrano, Cormons e molti altri.

Immigrati e svizzeri persero la vita accomunati, senza alcuna differenza, dal dolore e dall’incomprensione per quanto era accaduto, come dimostrano le parole del sacerdote durante l’omelia funebre: «Chiedere a noi e ai sopravvissuti perché sia accaduto tutto questo è come chiederlo al ghiacciaio muto. Chiederlo agli uomini? Si ottengono parole che non bastano neppure a suturare le piaghe aperte e sanguinanti».

Nell’immediato non ci fu tempo per analizzare l’accaduto, bisognava scavare con la speranza di trovare ancora vivo un amico, se non il proprio padre, fratello o figlio. Ci vollero quasi due anni per recuperare i resti dell’ultima salma. Il ghiaccio non travolse il cantiere, bensì le baracche, verso le quali si diressero le vittime nella convinzione di trovare riparo. Se il crollo fosse avvenuto verso l’ora di pranzo, i morti sarebbero stati 600. La costruzione di un’opera così complessa – ancora oggi Mattmark è una delle centrali idroelettriche più grandi d’Europa – richiese molte indagini e perizie glaciologiche.

Ciò nonostante, le baracche furono piazzate ad occhio, in maniera tale da risparmiare e ottimizzare tempi e costi. Le maestranze specializzate e i tecnici vennero alloggiati a valle del cantiere, in totale sicurezza; mentre gli alloggi della manodopera furono ubicati, in linea retta, sotto la lingua del ghiacciaio. La tragedia fu molto seguita dai media: in presa diretta, oltre duecento tra giornalisti svizzeri e corrispondenti esteri raccontarono al mondo una Svizzera fino ad allora sconosciuta. In Italia le reazioni furono forti, d’altronde l’emozione per il Vajont era ancora vivissima.

Questa storia, come a Marcinelle, si concluse nel modo peggiore. I tempi dell’inchiesta furono lunghissimi, sette anni. Diciassette gli imputati chiamati a rispondere all’accusa di omicidio colposo, tutti assolti, nonostante l’instabilità del ghiacciaio fosse nota da secoli. In appello andò anche peggio: assoluzione confermata e i ricorrenti (familiari delle vittime) furono condannati al pagamento delle spese processuali.

Le reazioni furono di profondo sdegno e incredulità. In Svizzera, l’opinione pubblica utilizzò Mattmark come stimolo per approfondire il dibattito sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato, che richiedeva sempre più manodopera straniera scarsamente qualificata. Anche per gli italiani in Svizzera, Mattmark fu l’occasione per interrogarsi sul senso della loro presenza in un Paese in cui erano economicamente necessari, ma socialmente male accettati. L’oblio nel quale è caduta questa tragica pagina dell’emigrazione italiana, e più in generale della recente storia svizzera, ci fa parlare di Mattmark come di una “Marcinelle dimenticata”.

Toni Ricciardi è un deputato del Partito democratico, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera. Storico delle migrazioni, è autore di “Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana” (Donzelli 2015)

© Riproduzione riservata