A cosa serve la filosofia? La domanda è tornata più volte negli ultimi anni. Ed è anche quello che potremmo chiederci aprendo le pagine dell'ultimo libro di Emanuele Coccia, Metamorfosi (Einaudi Stile Libero), la cui tesi è racchiusa nel sottotitolo: "siamo un'unica, sola vita". Qui il filosofo, professore a Parigi, si confronta con la biologia, con la botanica, con l'entomologia, con la teoria dell'evoluzione, per offrire la sua visione del mondo come super-organismo del quale ogni essere vivente è un elemento intrecciato agli altri. Lontano da ogni specialismo ma con solide letture alle spalle, il libro si presenta come un'avventura poetica e profetica - un saggio nel senso originario di "essai", tentativo, insomma esperimento. Metamorfosi è un affascinante come se, che nulla pretende di dimostrare; semmai ci mostra una possibilità e ce la rende seducente, la promuove, la istituisce. 

Ma a noi cosa cambia, in fondo, se siamo oppure non siamo una sola vita? Viviamo in una società pluralistica, dove vige il politeismo dei valori e delle ontologie. Per rispondere a questa domanda abbiamo appunto bisogno di decidere a che cosa diavolo serva la filosofia. Altrimenti nel 2022 parrebbe soltanto un’eccentricità, da parte di uno dei più riconosciuti filosofi europei under-50, dare alle stampe… un manifesto panteista. La verità è che, nel pieno di una crisi dell'ordine liberale, abbiamo effettivamente bisogno di tentativi del genere. Perché è solo a forza di tentativi (e di errori) che evolve la vita intellettuale. Proprio come quella biologica.

Un nuovo fondamento

Per circa un secolo, dopo la Rivoluzione francese, è stato abbastanza chiaro a cosa servisse la filosofia: a occupare nel mondo occidentale il posto lasciato vacante dalla religione e dare un nuovo fondamento conoscitivo e valoriale a quell'audace esperimento sociale chiamato modernità. Poi via via che i trionfi dello sviluppo economico hanno iniziato a diffondere a ogni livello un crescente benessere materiale, è parso che il nuovo ordine si giustificasse da sé. Forse, tutto sommato, non c'era bisogno di nessun fondamento, nessun surrogato della religione, nessuna filosofia, fintanto che il PIL cresceva. 

Così la filosofia cominciò a ritagliarsi un ruolo diverso. Quello di fondare nuovi ordini possibili, superando o reimmaginando la modernità, per rispondere a una domanda di senso che il benessere non colmava: anzi la alimentava, come scoprirono con orrore gli scienziati sociali del Dopoguerra. Infine è entrata in crisi l'economia stessa; e dietro l'audace esperimento sociale di due secoli fa abbiamo iniziato a intravedere le logiche insostenibili dello sfruttamento umano e ambientale. 

È in questo quadro generale che bisogna leggere l'essai di Coccia, che soltanto in bibliografia esplicita la propria ambizione: “portare alle estreme conseguenze l’ipotesi Gaia avanzata da James Lovelock e Lynn Margulis", l’idea cioè che il pianeta terra sia un sistema sinergico e autoregolante. Coccia ne trae la sua conclusione ontologica, secondo cui esiste un'unica sostanza articolata in diversi modi e in continua trasformazione. Ma l’istituzione di un nuovo immaginario collettivo di matrice panteista trova posto in un più ampio programma di ricerca che occupa la filosofia da qualche decennio, ovvero dalla fine delle grandi narrazioni: si tratta di riempire non soltanto il posto lasciato vacante dalla religione, ma anche dal funzionalismo, dal marxismo, dal neoliberalismo… Ecco dunque una nuova proposta di senso, un potenziale immaginario per il ventunesimo secolo: "Tutti i viventi hanno un'unica e medesima madre, Gaia, che condividono con milioni di altri esseri." Sulle orme dell’antropologo Bruno Latour, che vede nell’ecologia un sostituto della vecchia lotta di classe, Coccia redige direttamente il testo sacro di un nuovo culto: "Ogni nascita è il processo di migrazione degli dèi".

Il culto di Gaia

La filosofia è un punto di vista capace di cambiare il mondo. Come Spinoza aveva precorso la democrazia liberale, l'apocalisse neo-spinoziana di Coccia ambisce forse a sobillare una nuova metamorfosi spirituale. La sua vocazione mitopoietica lo porta a rivalutare teorie come il lamarckismo e a suggerire l'ipotesi eterodossa di una memoria della materia. Ma poiché il libro si ferma un attimo prima di diventare esplicitamente politico, gli esiti concreti del culto di Gaia potrebbero essere di vario genere. Come ogni apocalisse, se la Metamorfosi di Coccia troverà degli adepti allora avrà anche bisogno di glossatori.

Il filosofo insiste molto sui legami di nascita e di sangue - genitori, figli, fratelli… - ma le affinità che ne discendono non sono evidentemente di ordine familiare o razziale, bensì cosmico. Esse legano in un'eterna ghirlanda tutti gli umani, si estendono agli animali, ai virus, e includono anche i minerali, l'acqua, l'aria, eccetera. Così si arriva all'idea di un'equivalenza universale, in cui non esistono differenze di sostanza ontologica ma solo diversi modi di essere, né evidentemente differenze di valori perché tutto vale esattamente lo stesso. Tutto fa brodo primordiale. Le identità che affiorano sulla sua superficie sono degli "io" inventati per dare voce a Gaia.

Coccia ripercorre così, inevitabilmente, le tracce dei tanti illustri filosofi spinoziani che lo hanno preceduto, a partire da Schopenhauer e Nietzsche. Come loro fa piazza pulita dei valori morali, riconduce la voce degli individui al grido della natura, rifiuta ogni teleologia, rivendica un radicale antiumanismo. Come loro immagina una forma di ascesi nell'arrendersi alla legge di un cosmo senza leggi che non siano quelle della riproduzione dei giochi di vita. E chiude il libro con una fosca raccomandazione: "Dobbiamo ammalarci, ammalarci gravemente. E non aver paura di morire. Noi siamo il futuro. Viviamo in fretta. Moriamo spesso." Quello che in tutt'altro contesto verrebbe tacciato di pessimismo radicale viene qui rovesciato di segno e trasmutato in ottimismo, e la morte stessa viene annunciata come una buona novella. Perché essa è la porta stretta dalla quale si deve passare per rinascere a vita nuova, dopo la metamorfosi - questa volta come farfalla, quercia, fiume.

Tentativi ed errori

Inteso in questo modo, il culto di Gaia potrebbe fornire una risposta (radicale) al problema del cambiamento climatico e dell'esaurimento delle risorse del pianeta: se gli esseri umani si convincono che ogni cosa, inclusa la loro stessa vita, è secondaria rispetto all'ecosistema nella sua totalità, ogni mezzo politico per gestire la catastrofe in corso sarebbe giustificato. Così passavano nella pace e nell'armonia le stagioni sull'isola di Summerisle, nel film The Wicker Man, sito di un bizzarro culto pagano segnato da occasionali sacrifici umani. Ma sarebbe ugualmente giustificato, in un’ottica non-antropocentrica, lasciar invece correre la catastrofe, poiché essa non è altro in fondo che una metamorfosi più grande. L'umanità sopravviverà comunque sotto forma di fungo o sabbiolina.

C'è speranza che questo immaginario attecchisca? Questa è un'altra questione. Le opere di Latour e di Coccia hanno avuto successo in Francia, ma sono ancora lontane dall'aver fondato una religione. Per ora l’ecologia politica - anche se Coccia prende le distanze da questa etichetta, troppo antropocentrica - continua a essere un immaginario minoritario, malgrado tutti gli sforzi mitopoietici dei filosofi.
Quel che è certo è che l'umanità si trova di fronte a una sfida civilizzazionale dalla quale non uscirà soltanto con la forza, la tecnica e l'economia: avrà bisogno di sviluppare un immaginario in grado di motivare gli individui ad affrontare la transizione sociale e culturale. Di tentativo in tentativo, di scarto evolutivo in scarto evolutivo, finirà forse per generare la filosofia che le serve. Metamorfosi ci mostra quanto è lungo e tortuoso il cammino dell'evoluzione.

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