L’impeto della globalizzazione neoliberista sembrava inarrestabile, quasi un fatto insito nell’ordine naturale. Ora che ci troviamo a far fronte al conto da saldare, non sembra più così. Chi promuoveva e difendeva il progetto neoliberista di globalizzazione lo presentava davvero come se non ci fosse stata altra scelta, come se fosse stato parte dell’ordine naturale, inaggirabile come il tempo atmosferico. Per cui l’unica questione politica ed etica era: saremo in grado di adattarci rapidamente? La forma di adattamento raccomandata, dato che la nuova economia avrebbe richiesto competenze e orientamento tecnocratico, era quella di andare all’università. Se sei preoccupato perché il tuo lavoro potrebbe essere delocalizzato verso un paese con stipendi più bassi, va’ all’università e prenditi una laurea: guadagnerai in base a ciò che hai imparato. Era questo il mantra, collegato a una sorta di promessa: ce la puoi fare se ti impegni; se entri nel programma, se ti adatti come ti suggeriamo, puoi superare il problema della delocalizzazione, della stagnazione degli stipendi e della crescente diseguaglianza.

Ma in questi tre o quattro decenni il fossato tra vincitori e perdenti è diventato più profondo, ha avvelenato la politica e ci ha allontanati gli uni dagli altri, in parte a causa delle diseguaglianze che accompagnavano questo progetto. Ma c’era anche qualcos’altro: un cambiamento nel modo in cui abbiamo guardato al successo che andava di pari passo con il progetto. Chi è arrivato in cima ha finito per credere che il successo ottenuto fosse frutto del proprio lavoro, e che quindi si meritava le ricompense con cui il mercato premiava i vincitori, e, di conseguenza, che i perdenti si meritavano anch’essi il loro destino. In tal modo, tutto un insieme di atteggiamenti verso il successo, la vittoria e la sconfitta ha reso ancor più tossiche le diseguaglianze economiche che si stavano contemporaneamente ampliando.

Il papa ha viva consapevolezza di quella che viene chiamata “fede nel mercato”. È interessante che la “fede” descriva di fatto questa visione dei mercati. È una fede non ben articolata né ben difesa dal punto di vista morale, ma è nondimeno una fede secondo la quale i meccanismi del mercato ora sarebbero lo strumento primario per definire e raggiungere il bene comune. A questa “fede nei mercati” si accosta la credenza che, se i mercati sono liberi e competitivi, consegneranno alle persone ciò che esse meritano.

Un’idea di libertà

Mi colpisce il fatto che in Fratelli tutti papa Francesco veda che questo è un progetto economico, ma lo veda anche come un progetto morale e politico, che corrode il bene comune e mina la possibilità della solidarietà, perché se pensiamo davvero che i vincitori si meritino le loro ricompense, sarà molto difficile pensare a tutti noi come persone che condividono un destino comune e che hanno una responsabilità reciproca gli uni verso gli altri. Ciò ci porta a dimenticare non solo il ruolo della fortuna, ma anche il nostro indebitamento.

Così papa Francesco pensa che difendere la solidarietà comporti non solo affrontare le idee neoliberiste sui mercati e la meritocrazia che porta chi ha successo a inebriarsene fin troppo; ritiene che occorra fare i conti anche con una certa immagine di libertà, che ha il suo fascino: l’idea di libertà che è all’origine della “fede nel mercato” e della credenza che ce la puoi fare se ci provi. C’è qualcosa di molto potente in quell’idea di libertà: è l’idea che, come esseri umani, come agenti, siamo o possiamo essere autosufficienti, che possiamo farci da soli. Il papa affronta energicamente quest’idea, ne riconosce la forza: è un’idea consumistica e individualistica di libertà, che punta a una padronanza di sé sulla quale egli ci invita a riflettere.

Ci invita a notare che quest’idea in apparenza affascinante di libertà, di padronanza di sé, di autosufficienza ci taglia fuori dalla comunità e dal senso. E quindi il progetto della solidarietà, oltre a essere un progetto politico, è in ultima analisi un progetto spirituale, che richiede un allontanamento spirituale dall’essere nella morsa di questa pesante, inebriante nozione di libertà; richiede di capirne la natura spuria di libertà che è all’origine della fede nel mercato. La solidarietà concepisce la libertà umana come un tutt’uno con il nostro essere situati e con il nostro essere debitori.

Hybris e umiliazione

Mi sembra che la politica oggi sia spaccata da una dialettica tossica di hybris da un lato, e di umiliazione dall’altro. Questo ha a che fare con il modo in cui le diseguaglianze, che si sono ampliate, si sono combinate con la tracotanza dell’atteggiamento superbo di chi ha le credenziali giuste dal punto di vista professionale, e il senso di impotenza, esclusione e umiliazione di coloro che non hanno avuto successo nella nuova economia, e che si sentono guardati dall’alto in basso dalle élite munite di credenziali professionali. Dal punto di vista della filosofia morale e politica, abbiamo bisogno di ampliare il progetto della giustizia. Normalmente pensiamo alla giustizia come giustizia distributiva: come distribuire in modo più equo l’accesso ai beni basilari, come rafforzare e difendere le reti di protezione, garantire un’offerta pubblica decente quanto a salute, educazione, accesso al cibo, al vestiario e al riparo. Tutto questo è importante. Ma non mette a fuoco l’interesse delle persone non solo per la giustizia distributiva, ma anche per quella contributiva, connessa alla dignità del lavoro e alla sua degradazione. Per giustizia contributiva intendo la vita in una società la cui economia è configurata in modo che ciascuno possa contribuire in qualche modo significativo al bene comune, sia attraverso il mercato del lavoro sia in altri modi, in famiglia e nelle comunità. È un’idea ben articolata nel pensiero sociale cattolico, che trovo molto convincente. È l’idea che il bisogno umano fondamentale sia quello di essere indispensabile ai propri concittadini, di essere in grado di impiegare i propri talenti per rispondere a questi bisogni e di essere riconosciuto e apprezzato per averlo fatto. Così la giustizia contributiva non riguarda solo la dignità del lavoro, ma anche il ruolo del lavoro, del contributo di ognuno per acquisire riconoscimento, onore, stima, rispetto. La fonte più profonda dell’umiliazione è la sensazione, diffusa tra molti lavoratori, non solo che le élite li guardano dall’alto in basso, ma che il lavoro che svolgono non è valorizzato, apprezzato, non è fonte di riconoscimento. La sfida – anche morale – per l’economia è quella di creare un modo economico, morale e politico di comprendere la nostra vita comune che metta ciascuno in grado di dare un contributo e di ricevere un riconoscimento per averlo fatto.

Il bene comune

Papa Francesco scrive che «sembra che non trovino posto», nelle consuete narrazioni economiche, «i movimenti popolari che aggregano disoccupati, lavoratori precari e informali e tanti altri che non rientrano facilmente nei canali già stabiliti. In realtà, essi danno vita a varie forme di economia popolare e di produzione comunitaria» (n. 169). E continua dicendo che «questo (deve accadere), però, senza tradire il loro stile caratteristico, perché essi sono “seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia» (ibidem). Il papa collega tutto questo al rinnovamento della democrazia e alla lotta per la dignità. Vorrei aggiungere che papa Francesco, nel parlare del bene comune, sembra raccogliere la sfida di tenere insieme, di riconciliare due idee. Il bene comune comporta anzitutto uno stile di vita condiviso in condizioni di pluralismo. E tuttavia non può trattarsi solo di consenso, perché lui crede, secondo me a ragione, che il bene comune aspiri anche alla verità. Ma come è possibile tenere insieme il pluralismo, da un lato, e l’aspirazione alla verità, dall’altro? Mi ha sempre colpito un passo di Isaiah Berlin sulla libertà, quando, citando Joseph Schumpeter, scrive che «un saggio una volta ha detto che “rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni, eppure difenderle senza indietreggiare, è ciò che distingue un uomo civile da un barbaro”». Questo modo di pensare ai valori, al pluralismo e al bene comune mi è sempre sembrato sbagliato. Se i valori sono solo relativi, perché difenderli senza indietreggiare? Poi ho trovato quel che scrive papa Francesco su questo punto in Fratelli tutti: «Il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento». Per confrontarsi con il pluralismo nella ricerca del bene comune occorre creare una vita comune e condivisa, che renda possibile una deliberazione che miri a qualcosa di diverso dal semplice consenso. Deve mirare a qualcosa di vero. Mi sembra un modo coraggioso e audace di fare i conti con la questione del pluralismo e della verità: lo trovo molto convincente, ma è contro la nostra inclinazione naturale a pensare molte cose, il nostro modo naturale di confrontarci con il pluralismo. Che cosa significa davvero la tolleranza?

Falsa neutralità

Lo abbiamo visto ripetutamente: se si crea un vuoto morale nella vita pubblica, assegnando ai mercati il ruolo di aggiudicare rivendicazioni e richieste in competizione tra loro, creiamo quella voce morale in nome di un tipo di neutralità o tolleranza. Ma nei fatti quel vuoto morale è colmato da moralismi angusti e intolleranti: tipicamente, con varie forme di fondamentalismi, oppure con forme di nazionalismo stridente. Sono tentativi di riempire uno spazio pubblico, svuotato di un significato politico più ampio, con fonti di senso che sono profondamente distruttive.

 

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