Disperato-erotico-chic è un buon modo per definire la stagione di sfilate uomo primavera-estate 2026 appena trascorsa tra Milano e Parigi e che su questi tre assi incrociati si è basata, per trasferirci un sentimento che già sapevamo di covare dentro di noi. Ma che è emerso grazie a questi “creatori” (si diceva così), veri e propri scultori michelangioleschi di blocchi di granito non ancora levigati a pieno.

Non che tutte le sculture siano capolavori, sia chiaro. Anche perché a furia di battere sempre lo stesso chiodo poi uno si stufa, no? E infatti lo sconforto da fantascienza anni Settanta con cui Rick Owens da anni ci aveva disturbato con nostra felicità diventa addirittura non un’occasione antologica (è al Palais Galliera) ma archeologica, bella assai ma arcaica tanto quanto la sfilata a mollo nell’acqua con le solite cose, solo inzuppate.

Stessa cosa per la camera funeraria allestita direttamente nella sede di Balenciaga e dedicata ai dieci anni di Demna Gvasalia (retrospettiva che di fatto lo impoverisce invece di esaltarlo, e meno male che è arrivato Gucci).

Ecco questi due tipi di scoramento e sfiducia (che i consumatori hanno adorato indossare, in altri tempi) sono l’esatto opposto nel 2025 della direzione morbida ma a testa alta, accogliente ma mai doma, che informa la magnifica sfilata di Giorgio Armani, mai così vicina allo spirito del presente nel definire un uomo libero, aperto, tattile. Occorre ammettere che da qualche anno la capacità della moda maschile di interpretare la fine del tempo obbligato e la libertà nelle forme stanno lasciando di gran lunga indietro quella femminile, costretta a ruoli corporativi da film anni Ottanta, a tempi irregimentati e isterici, con cambi velocissimi, iperperformativi.

Qui invece si naviga dentro universi nei quali la vacanza non finisce mai – occupati o meno che si sia – come bene ha messo in scena Prada con retrogusti temporali che ricordano il capolavoro cinematografico Old di Shamalayan. Con il tempo che oscilla e scopre anche storici pants prima per donna (la stagione la trovate in uno dei mille account IG ossessionati dal brand, così come quella dei fiorelloni in bianco e nero dell’allestimento).

Afterlife

E poi braghette leggere, infradito, cappelloni di paglia. Una specie di limbo – di “afterlife”, una volta ancora – dentro il quale male certo non si sta. Forse un po’ inquieti, questo sì. Si attende. Si ciondola.

A proposito di relax, molta copertura hanno avuto i pigiami ricamati e in generale le molli linee che sono sfilate sopra i corpi degli ormai leggendari modelli bistecconi che solo Dolce&Gabbana sanno scegliere di fiore in fiore.

Impossibile non notare l’aumento del livello qualitativo del marchio da un bel po’ di stagioni. Nel contempo, qualcosa (non si sa perché) ci parla di un malessere e di una malinconia isolane, alla Giuseppe Verga, quasi spettrale nella sua apparizione reiterata.

Niente di tutto questo sembra toccare l’uomo Zegna, disegnato da Alessandro Sartori con una sapienza (anzitutto della palette) meravigliosa. Segno di una conoscenza unica delle sfumature della natura e del bosco e della possibilità di applicarlo alle tecniche del tessile. Anche qui il rilascio dell’armatura dell’ometto di una volta provoca una trasformazione sottile, in forma di erotismo chic difficile da raccontare, perché oscillante tra sottrazione e fierezza quieta.

Il contrario esatto della pagliacciata per trasparenze e spallone che – pur con contrattuale sapienza cromativa – Vaccarello ha fatto strisciare, più che sfilare, per Yves Saint Laurent, a Parigi.

Le sfilate diciamo francesi hanno seguito la stessa linea di cui si diceva all’inizio (soliti giapponesi in primis). Hanno visto il debutto della nuova guardia da Dries Van Noten (più vacanziera, più pop, happy, ma non certo sessuata) e la crescita ormai formidabile tra i ragazzi (e del vecchio) Issey Miyake.

Si sono viste cadute nel vestire rigidino – reso obbligatorio dai fatturati – del Louis Vuitton di Pharrell Williams (set up escluso, molto bello, di fronte al Pompidou). Hermes al contrario ha provato che si poteva fare la stessa cosa, ma molto meglio.

EPA

Il caso Jonathan Anderson

La settimana ha vissuto momenti di stupidera non controllata (Jaquemus) o controllata (Willy Chavarria, che comunque “disperato, erotico, stomp” in questo senso lo è, con simpatia politica).

E poi, inutile menarsela, c’è stata la cosa più importante. Forse il più rilevante cambio di rotta degli ultimi anni nella reggenza di un brand, attesa in modo spasmodico. Il cambio impresso all’uomo di Dior da Jonathan Anderson – all’inizio non di immediata percezione e poi esplosivo, come una pralina straordinaria che esplode in bocca – è stato fintamente semplice ma completamente radicale, al punto da scoppiare in questi giorni come una bomba.

Le rendigote perfettamente ricostruite a mano (bottoni compresi) per ricordare le origini dell’eleganza color confetto degli "Incredibili” elegantoni francesi dell’Era d’Oro, gilet ricamati in primissima linea. Jabot e collari puri ottocenteschi come collier di stoffa, sexy. Le volute di stoffa, citazioni perfette di grandi classici di Monsieur Dior, riproposte anche come code a larghe pieghe per bermuda-cargo pazzeschi. O come retri di paltò. I jeans a petto nudo, tagliati perfettamente o a volte con sinusoidali asimmetriche, bellissime. Molta campagna nei colori, anche inglese (mai abbandonare tutto). Cappe. Maglioncini stupidi, dai colori frivoli, ma perfetti. Torna il logo tradizionale – è finito quello con le lettere tutte maiuscole – piazzato ovunque con proporzioni di grandezza studiate a tavolino.

Un vortice. Un mazzo così.

Jonathan Anderson viene dalla guerra civile anglo-irlandese degli anni 90. Ha visto bombe esplodere nel suo villaggio. Conosce la disperazione vera. È questo – per questa frequenza che si sente sotto, terribile ma necessaria, soprattutto in questo esatto momento – che nessuno è stato elegante e chic come lui, e di grandissima lunga.

Questo è quello che è successo.

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