All’età di 76 anni, con un entusiasmo metà sintetico e metà romantico, il profeta della musica elettronica tiene un concerto all’Anfiteatro degli scavi come i Pink Floyd negli anni ‘70. «Siamo animali analogici nell'era digitale. Non dovremmo avere paura di nessun tipo di innovazione. L’IA è solo uno strumento. Come l'elettricità può essere pericolosa ma non è stata negativa per l'evoluzione dell'umanità. Il futuro ci pare peggiore perché sappiamo che noi non ne faremo parte»
Jean Michel Jarre è un ragazzino, 76 anni portati dentro le fibre prima elettroniche, poi digitali. Un entusiasmo metà sintetico, metà romantico (o entrambi) lo spingono a combinarle di più grosse ancora, dopo Piazza del Duomo a Venezia c’è Pompei. Una specie di esorcismo contro la hybris dei Pink Floyd. Tié.
Qual è stato il momento in cui è entrato nel mondo digitale o elettronico, quando ha iniziato a occuparsene?
Da adolescente suonavo in gruppi rock e mio nonno era un tipo pazzo. Era un musicista e anche un inventore. Ha uno dei primi mixer per le stazioni radio e anche l'antenato dell'iPod, oltre al vecchio giradischi con le batterie incorporate per ascoltarlo. Viveva a Lione. E anch’io sono nato lì. Quando avevo 12 anni, mi ha regalato un registratore a cassette di seconda mano. Ne sono diventato ossessionato e registravo tutto il giorno. E un giorno ho riprodotto la musica, il nastro al contrario. Pensavo che gli alieni mi stessero parlando. E quello è stato l'inizio di tutto.
In un certo senso ha continuato la tradizione di inventore.
Ho sempre pensato che la tecnologia fosse come il lavoro di un detective. È grazie all'invenzione dell'elettricità che abbiamo avuto Chuck Berry o David Gilmour o che abbiamo creato componenti elettronici che permettono a me e ad altri di fare la musica che facciamo. Ho iniziato quando ero davvero un adolescente, quando ho venduto la mia chitarra e il mio amplificatore per andare a Londra. E poi sono andato al Music Research Centre, dove è nata la musica elettronica. Non ci rendiamo conto che la musica elettronica non ha nulla a che vedere con il jazz, il blues o il rock, non ha nulla a che vedere con gli Stati Uniti. È fondamentalmente un movimento europeo. Tra Parigi, Milano, Monaco e Stoccarda. L’idea è quella di considerare la musica per la prima volta non solo in termini di note basate su solfeggio, ma basata sui suoni. Questa direzione ha rivoluzionato il modo in cui facciamo musica oggi. Tutti stanno diventando sound designer oltre che musicisti, integrando il suono della pioggia, il suono del vento o di una lavatrice.
Era consapevole del fatto che il termine “elettronico” stesse diventando qualcosa di non esattamente definito? Come ovviamente accadeva dentro la grande IBM o in Olivetti, parlando dell'Italia.
È questa la vera rivoluzione del XX secolo, che ha cambiato la nostra società. E con i nuovi strumenti dell'era digitale, noi artisti abbiamo dovuto affermare che siamo animali analogici nell'era digitale. È il motivo per cui non dovremmo avere paura di nessun tipo di innovazione, come l'intelligenza artificiale al giorno d'oggi. Voglio dire, l'intelligenza artificiale è un altro strumento. È come l'elettricità, può essere pericolosa. La scoperta del fuoco è pericolosa, ma non è stata negativa per l'evoluzione dell'umanità, come l'elettricità, la fissione atomica, l'intelligenza artificiale.
Qual è la sua formazione?
Ho studiato musica classica al Conservatorio di Parigi e poi mi sono ribellato per entrare in gruppi rock e la ribellione mi ha portato al rock.
Quindi niente pianoforte?
Eccome, con Pierre Boulez. Erano loro i miei insegnanti, erano fantastici. Pazzi, pazzi.
Tutte persone che pensavano alle possibilità dell'umanità, a ciò che stava accadendo e anche al suono della macchina, ma la macchina in un certo senso pensava e ballava o semplicemente interagiva con noi. È un punto molto interessante perché in realtà all'epoca pensavamo di avere una visione positiva e ingenua del futuro. Pensavamo tutti che dopo il 2000 le auto avrebbero volato e il sistema sociale e quello educativo sarebbero stati visionari.
Negli anni '70 avevamo già un'idea vintage del futuro che veniva dagli anni '50, E poi?
Certo, incredibile. È piuttosto interessante vedere che ancora oggi i simboli del futuro sono eroi molto vecchi. Batman, Superman, Spider Man, hanno 100 anni. Alla nostra generazione è servito molto tempo per ricreare una sorta di visione del futuro. È proprio ciò di cui si occupano l'intelligenza artificiale, la realtà virtuale e tutto il resto. Finalmente, dopo forse 50-60 anni, stiamo entrando in una nuova era e penso dentro una nuova vita, giovane.
Si sente così?
Sì, dopo un lungo viaggio. Un po’ di Oxygène avrebbe dovuto esserci a metà strada. Sono passati cinquant’anni dall’uscita di quell’album. Ma noi in realtà siamo sempre stati interessati a creare una sorta di legame tra sperimentazione e melodia. Come latini, l’abbiamo considerato il centro della musica.
Cosa significava Oxygène?
Era già come un canto per la corrosione, in un certo senso, del sistema degli esseri viventi presenti sulla terra.
O era solo un trucco?
Era, anzi è interessante perché quando parlavamo di ecologia e ambiente non eravamo in molti a farlo, ci consideravamo una specie di neo hippy. Ed era così. Ma in realtà, se prendi la copertina di Oxygèn è più punk che hippie. Il teschio. Ricordo che mia madre mi diceva: «Perché chiami la tua musica con il nome di un gas e metti un teschio sulla copertina? Non funzionerà».
Non è una cattiva osservazione.
Assolutamente. Ho sempre considerato il mio lavoro una cosa da fare fuori dagli schemi. Non è arroganza, è un dato di fatto.
Quando è uscito Oxygèn eravamo nel bel mezzo dell'era punk e della disco.
È quello che intendevo. Mi riferivo a un contesto più ampio. Prendi Oxygène Part V: Giorgio Moroder mi ha detto che è stata una grande fonte di ispirazione per lui. Noi artisti siamo tutti ladri, rubiamo tutto quello che sentiamo, tutto quello che leggiamo, tutto quello che vediamo. Il copyright è folle.
In un certo senso, questa stagione di prompt così difficile da proteggere con il copyright è una stagione molto simile al suo lavoro?
È molto divertente quel che dice. Quando in Cina ho incontrato un tizio che si occupava di copyright, mi ha detto: «In Occidente ci avete parlato di copyright. Invece avreste dovuto dirci di copiare male».
Scusi la domanda un po' sgradevole: nella carriera di un artista, come per un architetto, un designer, uno scrittore, c'è qualcosa di simile a una palude che arriva dai 40 ai 70 anni, un grande pozza in cui devi nuotare? È vero che solo i più forti sopravvivono in questa palude, ma è molto più facile sentirsi deboli, senza energia?
Quello che potrei dire ai giovani artisti è di provare capire prima possibile che il successo e i fallimenti, gli incidenti, sono come un'onda sinusoidale. La vita di un artista, la vita di un essere umano è nel mezzo.
E lei cosa ha fatto?
Ho solo imparato. Mi sono buttato a capofitto negli anni '80 e '90, facendo tantissimi concerti, perché era un'epoca folle in cui siamo diventati tutti pazzi per l’ipertrofia delle performance. Ho fatto concerti per due o tre milioni di persone. Sono ancora il detentore del record mondiale per i concerti più grandi.
Piazza San Marco a Venezia e Pompei dopo i Pink Floyd. Entrambi i concerti sono considerati scandalosi dal punto di vista ambientale.
Questo è il motivo per cui si tratta del mio sogno che si avvera. Stavo per suonare a Venezia un anno dopo i Pink Floyd. Hanno smontato il posto all'improvviso. Hanno detto: l'Italia è un museo, non si tocca. Ma è vero. È proprio così.
E Pompei?
Quelli che hanno costruito Pompei erano dei geni. Erano visionari, persone straordinarie. Lavoravano con degli esperti, avevano conoscenze di acustica e audio se hanno fatto in modo che senza un microfono, dal centro di un luogo, potessero sentire tutti. Ora non sanno come farlo.
Lei è distopico o che?
Penso che ci sia questa folle idea secondo cui ieri era meglio e domani sarà peggio. C'è questa idea, questo concetto che pare necessario, indispensabile, secondo cui il futuro sarà alla Terminator. È solo perché sappiamo bene che noi non ne faremo parte, apparterrà a qualcun altro. Pazienza. Ci sarà altro
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