«Chi vuol essere San Giorgio, diceva Nietzsche, deve lottare contro i draghi e non contro le lucertole». È difficile parlare dell’ultimo libro di Michela Murgia, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, Mondadori, senza parlare dello stato di salute dell’autrice, soprattutto perché lei stessa ne sta facendo un’arma comunicativa.

Eppure è quello che mi sforzerò di fare, per il rispetto che si deve a una scrittura che esisterà anche quando la biografia di chi l’ha scritta sarà diventata meno interessante.

Tre ciotole è una raccolta di 12 racconti dal valore disuguale, composti tutti insieme nel giro di pochi mesi; otto su 12 sono scritti in prima persona e non è semplice decidere quanti di questi “io” si possano riferire a un’unica voce – i protagonisti (anche quelli dei quattro in terza persona) sono tutti anonimi, in uno slancio di universalizzazione.

La voce del primo racconto, appartenente a una donna che ha un bello scambio con un oncologo intelligente, sembra coincidere con quella di Murgia stessa; e l’ultimo racconto, in cui un’altra donna parla della sorella morta con allusioni a ciò che gli amici sanno essere stato il reale comportamento di Michela, chiude il libro in una parabola unitaria.

Ma dentro ci sono testi che recalcitrano all’autobiografia, il cancro si infiltra qua e là attribuito a questo o a quel personaggio, le idee di alcuni di loro certamente ripugnano all’autrice. (Questo, come vedremo, è il punto).

La parola ai malvagi

È forte la tentazione di salutare questo libro come un ritorno di Murgia dalla scrittura polemica e militante alla “vera” letteratura, ma sarebbe una reazione stupida; sia perché Michela non è il figliol prodigo, sia soprattutto perché la scrittura polemica e militante ha da sempre fatto parte della letteratura a pieno titolo. (Non sono forse vera letteratura la Modesta proposta di Swift o l’Omaggio alla Catalogna di Orwell?).

Il punto, dicevo, sono le idee dei personaggi. Se la donna che cerca di purificare il proprio vomito dagli strascichi limacciosi di un abbandono ha più o meno le idee dell’autrice (sia pure senza rispecchiamenti autobiografici), quella che preferisce al letto coniugale il cartonato di un androgino cantante dei coreani Bts pare una Murgia vista con distacco ironico da Murgia stessa; e che dire di quella che «non ha mai voluto essere alla pari con suo marito», o di quell’altra che fa i servizi a casa di un colonnello e ne ammira il decisionismo, anche quando fa morire il figlio affidandolo incautamente a un intervento chirurgico per un tumore che probabilmente si poteva aggredire con metodi meno militareschi?

Qui addirittura c’è il cameo di una «tipa che in televisione ha detto che la divisa del generale le faceva paura», una «pazza che diceva di avere paura di chi coordina la vaccinazione» – impossibile non riconoscervi Murgia mentre polemizza col generale Figliuolo. Molte voci, insomma, sono introdotte perché hanno torto.

È la mossa illuminista di dare la parola ai malvagi o agli stupidi perché si sputtanino coi loro stessi discorsi, la mossa di Pascal contro i gesuiti nelle Lettere provinciali. Un meccanismo formale che Murgia ha usato spesso nei suoi scritti di battaglia, e che anche qui non riesce a liberarsi dalla trappola della ragione e del torto.

Un’operazione a metà

Uno dei racconti più interessanti si intitola Utero in affido; non in affitto, perché la donna che si sta offrendo a una maternità surrogata lo fa per puro altruismo, perché «capisco il dolore quando lo vedo e il dolore del mio più caro amico mi è insopportabile».

Tanto più ammirevole il gesto perché la donna stessa ammette di odiare i bambini e di non volere quel figlio in ogni caso, anche se dovesse succedere qualcosa all’amico, lo lascerebbe piuttosto in ospedale (e comunque prega l’amico di non farglielo più vedere fin che resterà bambino).

Una donna che odia i bambini e che accetta di farne crescere uno nel proprio ventre, di ascoltarne i battiti e i calci, di partorirlo con dolore continuando a pensare che non lo vorrà vedere nei giorni e nei mesi e negli anni successivi – che splendido personaggio per Strindberg o Musil, e invece Murgia lo usa per battere in breccia un pregiudizio della destra.

Per questo, credo, l’operazione cercata da Murgia in questo libro è rimasta a metà: non si è affidata completamente alle contraddizioni della narrativa di invenzione, ha obbedito al suo implacabile bisogno di controllo e di insegnamenti da impartire a questo “paese infame”; col risultato di impoverire lo spessore dei suoi personaggi, che spesso diventano delle silhouettes o dei cartelli esemplificativi.

Lo stile

Il libro è astuto nell’ordinamento: non solo per l’apertura e la chiusa che si richiamano integrandosi, ma anche per la cura con cui il personaggio minore di un racconto diventa il protagonista di un altro eccetera; si cerca insomma di dargli unità narrativa come se fosse un romanzo (anche a scopi commerciali) – ma due modi di intendere la letteratura (correggere il mondo o scavare nel buio) invece di integrarsi, mi pare, si ostacolano a vicenda minando la compattezza del libro.

Il tutto si riverbera sulla forma dell’espressione, sullo stile di scrittura: da una media piuttosto tirata via, con battutacce di grana grossa («farò la mammola, che mi riesce di certo meglio che far la mamma»), si staccano alcuni momenti mimetici di italiano regionale (“filato” nel senso di “incrinato” detto di un piatto) e notazioni di grande finezza psicologica («si avvicinò lentamente alla scrivania come se la statuina potesse scappare davanti a un ingresso troppo brusco») o percettiva («dal corpo pesto esalava un vapore leggero che lo rendeva vivo in un modo più insopportabile di quando poteva muoversi e scappare»). Anche su questo piano, l’impressione è di qualcosa che poteva essere e purtroppo non è stato del tutto.

Massacrare un ratto

L’ultima citazione è tratta dal racconto che a me pare in assoluto il più bello del libro e che si intitola Fossa comune. Dei ragazzi di buona famiglia stanno chiacchierando con la loro coach di pallamano quando da un tubo di scolo sbuca un grosso ratto; quasi per caso cominciano a calciarlo e insensibilmente il gioco si trasforma in un massacro, del corpo del ratto non resta che un fagotto maciullato.

Murgia descrive con passione il cadavere («il muso non era più puntuto e dagli sfinteri usciva la poltiglia rossastra degli intestini») e quando i ragazzi se ne vanno la protagonista sente il bisogno di toglierselo dalla vista; lo seppellisce e dove il corpo è sepolto il terreno presenta un piccolo rialzo.

Qui accade l’imprevisto: «Allora ci salii sopra e saltai per schiacciare il più possibile la terra contro il corpo dell’animale… quello che ancora non era stato rotto dai calci dei ragazzi lo fracassai io in quel modo. Alla fine la terra era pari. Così mi parve».

Dall’orrore alla complicità, che cos’è che Murgia vuole massacrare e seppellire in modo che nessuno lo veda più? O la rabbia violenta, cieca, deriva proprio dall’idea che ci sia qualcosa da rimuovere e da tenere occultato per sempre?

Tacere Dio

Murgia ha parlato spesso di madri, e ancora più spesso ha parlato di rapporti umani; ma se nei suoi libri c’è un grande non-detto è il rapporto umano che si istituisce tra la madre e il figlio durante il tempo della gestazione.

Psicanalisi e letteratura sono convergenti ma non reciprocamente commutabili nel lavoro di riportare alla luce ciò che è rimosso.

Quel che non si può dire è ovviamente la colpa, ma spesso anche il segno d’elezione; è curioso, per esempio, che in un libro dominato dalla morte una cristiana fervente e in odore d’eresia come lei non ci parli mai del Dopomorte – evidentemente per lei di Dio non si può parlare che negli scritti polemici (la religione presente nei racconti è solo quella tradizionale-bigotta); nella letteratura d’invenzione, di Dio si deve tacere.

Una astinenza sospetta e commovente per una scrittrice che non ha paura di apparire scandalosa, ma che forse teme l’intimità oscura e infinita, quella che non tenuta a freno può portare alla blasfemia.

Come commoventi sono, nella storia dei capolavori letterari, alcuni rifiuti e alcuni vuoti (ah, il vecchio Tolstoj che rinnega l’inganno letterario e tuttavia non può fare a meno di creare un personaggio memorabile come Chadzi Murat, e Leopardi che se fosse andato a Parigi ci avrebbe dato una sorprendente autofiction!).

Contro i draghi

I bambini, dice la protagonista di Utero in affido, sono odiosi perché fanno quel che han voglia di fare senza curarsi delle conseguenze; il bambino è quel che da sempre una parte di Murgia ha voluto essere, o possedere. Lei quindi che trova odiosa sé stessa: ci sono le radici di un racconto che nel libro manca.

E allora viene in mente che anche una certa sciatteria stilistica può essere dipesa dalla fretta, e ci si ricorda la ragione di quella fretta e si finisce per fare quel che all’inizio ho detto di non voler fare. Meglio una mezza riuscita che un compitino ben fatto, Murgia lotta davvero contro i draghi. In un suo post su Instagram ho visto tre ciotole che gli amici le hanno regalato per festeggiare l’uscita del libro, e mi sono chiesto se non possano considerarsi una integrazione figurale del testo; forse nell’era dei social la vecchia “biographical fallacy” contro cui ci metteva in guardia il New Criticism americano è proprio una roba che non regge più.

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