Domenico Scarlatti era nato a Napoli nel 1685, lo stesso anno in cui vedono la luce Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel. Curioso che gli unici tre compositori dell’epoca barocca eseguiti regolarmente dai più grandi pianisti della modernità, Glenn Gould, Svjatoslav Richter, Vladimir Horowitz, siano anche perfettamente coetanei. Come Bach, anche Domenico era figlio d’arte. Alessandro Scarlatti, il padre, fu uno dei maggiori compositori della sua epoca. Tra i fondatori del teatro musicale, scrisse più di cento opere, era una celebrità. Il figlio crebbe in un ambiente del tutto votato alla musica: rigida scuola familiare, avviamento professionale fin dall’adolescenza, viaggi tra Napoli, Firenze, Venezia e Roma, dove si ferma.

Intorno al 1715 lavora prima per la regina senza trono Maria Casimira di Polonia e poi è maestro della cappella Giulia, un incarico molto importante all’ombra del vaticano. Ha all’incirca trent’anni e ha assecondato le ambizioni paterne. Salvo qualche rara composizione che gli è sopravvissuta, i critici musicali sono concordi nel definire non memorabile la sua produzione fino a quella data. Solidissima, frutto di una bottega importante, ma nulla che lo distingua rispetto a colleghi contemporanei come Antonio Vivaldi, che era di qualche anno più vecchio di lui. A Roma però lo nota un ambasciatore ricco sfondato, il Marchese di Fontes, portoghese: il prestigio di quel cognome, Scarlatti, potrebbe far contento il re João V a Lisbona. Lo assumono. Domenico, a trentacinque anni, come un cervello in fuga qualsiasi, parte e non tornerà mai più.

L’incontro

Il maestro e l’infanta, il romanzo ispirato alla figura di Scarlatti che ho appena pubblicato per Neri Pozza, comincia da qui, dal 1720. Per due ragioni precise: anzi tre.

La prima è che a Lisbona viene superato un confine netto, oltre il quale le notizie su Scarlatti si diradano, evaporano, la biografia si fa lacunosa e si apre lo spazio per il romanzesco, per l’invenzione. L’unico esaustivo studio biografico su Domenico Scarlatti, pubblicato a inizio degli anni Cinquanta dal clavicembalista e studioso americano Ralph Kirkpatrick, è proprio la testimonianza di una sfida contro l’assenza di notizie, un faticoso districarsi tra fonti incerte, un collage di pezze giustificative e congetture, insomma il sorprendente ritratto di un fantasma.

La seconda ragione è che a Lisbona Scarlatti incontra la persona che cambia il suo destino: l’infanta del Portogallo, Maria Barbara di Braganza, alla quale tra le altre cose dovrà fare da precettore musicale. Da qui in poi, ciò che sappiamo di lui sorge come riflesso di lei.

Per esempio, un fatto enorme della biografia di Scarlatti è che morirà a Madrid nel 1757, dove visse più della metà della vita, ebbe figli e una seconda moglie spagnola: ma ciò è accaduto perché Domenico segue Maria Barbara quando, nel 1729, va in sposa al principe delle Asturie, Fernando di Borbone, per poi salire al trono nel 1746.

Altro fatto enorme: le sue 555 sonate per clavicembalo, uno dei grandi monumenti della storia della musica, che Gabriele D’Annunzio definiva «una collana di perle sfolgoranti», che Muzio Clementi, e poi Chopin, e Clara Schumann insegnavano ai loro allievi, e che i più grandi pianisti e pianiste di tutti i tempi hanno eseguito, ebbene altro non sono che gli esercizi che Scarlatti concepì per la sua allieva, per Maria Barbara.

Dunque, la domanda: chi era la bambina di nove anni che Domenico incontra nel 1720, figlia primogenita del re, considerata senza talenti e descritta come sgraziata, brutta, malaticcia, pregiudicata dai protocolli di corte? Chi era questa futura regina di Spagna trascuratissima dalla storiografia pur essendo cugina di Maria Teresa d’Austria, nuora di Elisabetta Farnese, zia di Luigi XV? Chi era Maria Barbara, ragazza e quindi sposa, che il compositore segue in Spagna e dalla quale non si separerà fino al giorno della morte? E cha ha saputo mettere ordine nel disordine di un artista pericolosamente tentato di non lasciarci nulla?

Non bisogna dimenticare infatti che non esistono autografi tra gli oltre cinquecento esercizi, ma li abbiamo soltanto perché lei ne fece pubblicare trenta (1738) e i restanti li fece copiare e rilegare a uso personale, li custodì nelle sue varie residenze e quando morì, un solo anno dopo il suo maestro (1758), li lasciò in eredità al castrato Farinelli (suo impiegato a corte) che li riportò in Italia.

Ed ecco la terza ragione: la musica. Gli esercizi. Non esiste prova che alcuno di essi sia stato concepito prima del 1720, cioè prima dell’incontro con l’infanta. Essi dunque riguardano la seconda parte della sua vita, quella parte di vita che il maestro ha trascorso prima in Portogallo e poi in Spagna al seguito della ragazza. In una tale assenza di dati biografici che non siano luce indiretta, non è così fantasioso affermare che gli esercizi rappresentano un diario di viaggio – poiché di questo in fondo si è trattato per Scarlatti, un lungo viaggio senza ritorno.

Il suono dei mondi

Per il romanzo, gli esercizi – le Sonate – hanno rappresentato così un libro aperto da decifrare, da interpretare perché custodi di un racconto. D’altra parte, la singolarità di questa musica, che l’orecchio coglie immediatamente, è il suono dei mondi che il compositore ha attraversato. Nelle Sonate noi sentiamo tutta la tradizione della scuola napoletana nel cui seno Scarlatti è nato e si è formato, l’impronta paterna, la grandiosa tradizione dei suoi predecessori nell’ufficio di compositore per il papa, come Girolamo Frescobaldi e Pierluigi da Palestrina, lo stile italiano di inizio Settecento, e poi passo dopo passo avvertiamo il movimento. Sentiamo entrare in scena il Portogallo con le sue danze in arrivo da oltremare e la tradizione polifonica vocale, e quindi il passaggio in Spagna, verso sud, l’Andalusia. E qui gli esercizi di Scarlatti diventano qualcosa di veramente unico: ci sentiamo il passato di al-Andalus, la civiltà araba, la reconquista, le voci della diaspora ebraica, i canti popolari dei gitani. Alcuni dei suoi grandi interpreti hanno saputo cogliere questo aspetto così peculiare e metterlo in luce. I russi, per esempio: Sergej Rachmaninov, che era un suo appassionato interprete, e Emil Gilels, e Vladimir Horowitz. Ma anche la rumena Clara Haskil, l’americano Scott Ross, l’italiana Maria Tipo, la francese Marcelle Meyer, la catalana Alicia de Larrocha, e oggi Michail Pletnëv, Maurizio Baglini, Lucas Debargue, Jean Rondeau: tutti loro hanno saputo e sanno sottolineare i colori orientali di Scarlatti e il sentimento di malinconia che pervade la sua musica, una malinconia che balugina anche laddove abbiamo esuberanza e ritmo.

Nei pochi minuti degli esercizi ci troviamo spesso di fronte a contrasti sconcertanti e a quella che pare essere un’urgenza di realismo. Scarlatti ha tutta l’aria di aver voluto registrare il vero e trasfigurarlo nella sua visione lirica, brutalmente libera.

Se c’è una fonte a cui si è abbeverato il romanzo, sono questi taccuini fatti di musica. Scarlatti non lasciava segni tangibili dietro di sé – documenti, reperti, lettere, beni – ma si è affidato a qualcosa di evanescente e azzardato: isolandosi rispetto ai suoi contemporanei, Scarlatti ha composto una musica aperta a ciò che vedeva e ascoltava.  

Ma tutto ciò avrebbe potuto essere vano se non avesse incontrato Maria Barbara, principessa e poi regina che ha saputo riporre nelle mani del maestro la propria libertà negata, lasciandolo libero di vivere.

Mi è piaciuto immaginare che la musica di Scarlatti non nasce nel chiuso di una stanza, nel rispetto di un rigido mansionario, ma emerge nel flusso della vita: porta dentro di sé quel lontano viaggio e tutti i segreti sentimenti che le parabole degli sradicati recano nascosti nella loro valigia.

Quello che è interessante di Domenico Scarlatti è che questa valigia era leggera, era spartana – lo si vede dal suo testamento in cui dominano calze, forchette, camicie, oggetti di nessun valore, cianfrusaglie. E ciò che è determinante è l’incontro con Maria Barbara e la rivelazione che ne deriva approssimandosi il più possibile al mistero del loro incontro.

Qui si scopre che non c’è una prodiga mecenate sullo sfondo di un genio, bensì il contrario: c’è un controverso artista, un uomo profondamente solo, all’ombra di una donna eccezionale, anch’essa sola.

Gilles Deleuze ha scritto: «Il ruolo del maestro: è quello di riconciliare l’allievo con la sua solitudine…». Un potere, o meglio un dono, che forse vale per entrambi.


Alberto Riva è autore del libro Il maestro e l’infanta, edito da Neri Pozza

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