«Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Chi non ha mai sentito questo enigmatico e famoso aforisma? Chi non l’ha mai usato a sproposito, credendo che volesse banalmente dire: «Se non sai di cosa parli, è meglio che tu stia zitto?» E chi saprebbe dire chi l’ha pronunciato, quando, dove e perché?

Il 2021 è il momento giusto per rispondere a queste domande, visto che l’aforisma vide la luce nel 1921, esattamente un secolo fa, come frase conclusiva della più importante e influente opera filosofica del Novecento, intitolata in tedesco Trattato logico-filosofico, ma oggi nota con il titolo dell’edizione inglese uscita l’anno dopo: Tractatus Logico-Philosophicus, che in latino fa subito più figo. Soprattutto in Inghilterra, dove non si riesce neppure a pronunciarlo.

Accettare l’inevitabile

L’idea dello slittamento linguistico fu di Bertrand Russell, che aveva già lui stesso pubblicato nel decennio precedente i famosi Principia Mathematica, con un titolo ancora più impronunciabile oltre Manica. Russell era il maestro di Ludwig Wittgenstein, l’autore dell’aforisma e del Trattato, e i due costituiscono la più famosa coppia di filosofi del Novecento: il primo vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1950, e il secondo fu eletto “filosofo del secolo” dalla rivista Time nel 2000.

Ma, una volta stabilito chi, quando e dove abbia pronunciato l’aforisma, rimane da capire perché. La risposta breve è che Wittgenstein era un austriaco degli inizi del Novecento, anche se queste poche parole sono sufficienti soltanto al proverbiale buon intenditore. Per gli altri, bisogna aggiungere che l’Austria verso gli anni ’20 stava passandosela molto male: l’impero austro-ungarico era collassato dopo una lunga agonia, e il periodo fra le due guerre mondiali era foriero di grandi tempeste, che non tardarono a venire.

Oggi guardiamo a quel periodo, molto simile al nostro, come al tempo della dissoluzione dei valori: detto altrimenti, di tutte le parole metafisiche che di solito vengono pomposamente scritte con la maiuscola, come Dio, Verità, Giustizia, Bontà, Bellezza, eccetera. Lo sapevano tutti, che quelle parole ormai non avevano più senso, ma a dirlo con la massima arguzia ed efficacia fu Karl Kraus, che inventò un metodo geniale e semplice per far satira: estrarre citazioni appropriate dai media e ripubblicarle nella sua rivista La fiaccola, leggerle nelle proprie conferenze o inserirle in opere quali Gli ultimi giorni dell’umanità (1922), per lasciare che le assurdità snocciolate da giornalisti, politici, militari, preti e borghesi si mostrassero da sé.

Prendendo atto della dissoluzione della metafisica, nel Trattato Wittgenstein mise appunto in dubbio la possibilità e l’opportunità di parlarne. In particolare, propose l’idea che le frasi del linguaggio possono correttamente descrivere situazioni di fatto, ma non sensatamente esprimere giudizi di valore.

E poiché i fatti e i valori sono i rispettivi oggetti di interesse della scienza e della filosofia, ne segue che il linguaggio è adatto a scopi scientifici, ma non a fini filosofici. L’aforisma conclusivo del Trattato significava dunque che bisogna accettare volontariamente l’inevitabile, evitando di parlare a vanvera di tutte le cose che il linguaggio non può comunicare.

Per non lasciare dubbi al lettore, qualche riga prima dell’ultima Wittgenstein specificò prosaicamente ciò che l’aforisma riassumeva poeticamente: «Il metodo corretto della filosofia sarebbe di dire soltanto ciò che può essere detto: dunque, solo proposizioni scientifiche, che non hanno nulla a che vedere con la filosofia. E ogni volta che qualcuno volesse fare della metafisica, bisognerebbe fargli notare che ha detto delle cose senza senso».

Misticismo e poesia

Per quanto benemerito, il progetto di tacitare i filosofi era difficilmente realizzabile, e lo presero seriamente soltanto in due. Il primo fu Wittgenstein stesso, che per qualche anno abbandonò la filosofia, e si ritirò in montagna a insegnare alle elementari. Il secondo fu il Circolo di Vienna, fondato nel 1924, i cui positivisti logici intrapresero una meritoria crociata contro tutta la filosofia continentale: in particolare, il discorso Che cos’è la metafisica (1929) di Martin Heidegger venne stroncato da Rudolf Carnap, con vivaci toni alla Karl Kraus, nel saggio L’eliminazione della metafisica attraverso l’analisi logica del linguaggio (1931).

Wittgenstein non condivideva però la furia iconoclasta del Circolo di Vienna nei confronti di tutto «ciò di cui non si può parlare».

Fin dal 1919, inviando all’editore Ludwig von Ficker il manoscritto del Trattato, gli aveva infatti spiegato in una lettera: «L’opera si compone di due parti, quella scritta e quella non scritta, e la più importante è proprio la seconda». E verso la fine della parte scritta aveva ribadito: «Una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non stati neppure toccati».

Per Wittgenstein, dunque, le cose di cui non si poteva parlare erano le più importanti di tutte. Ma c’era un’altra via per arrivarci: il misticismo, che secondo lui affiorava in tutto ciò che il linguaggio mostra implicitamente, pur senza essere in grado di dirlo esplicitamente. Nei suoi termini, sempre dalla conclusione del Trattato: «ci sono cose che non si possono esprimere a parole, ma si manifestano da sé, e costituiscono ciò che è mistico».

Misticismo a parte, una seconda e più ovvia via per arrivare a mostrare ciò che non si può dire è la poesia. Non a caso, le limitazioni del linguaggio erano state anticipate dal poeta viennese Hugo von Hofmannsthal: un ex enfant prodige che, con una precoce carriera letteraria di gran successo ormai alle spalle, a 28 anni scrisse la breve ma intensa Lettera di Lord Chandos (1902), molto apprezzata da Wittgenstein.

Non sorprendentemente, visto che vi si legge: «Mi divenne gradualmente impossibile trattare argomenti elevati o comuni servendomi di quelle parole che tutti gli uomini solitamente usano senza darsi troppi pensieri. Avvertivo un inspiegabile disagio anche solo a pronunciare parole come spirito, anima e corpo».

Come si vede, in un certo senso Hofmannsthal era anche più radicale di Wittgenstein: per lui il problema della metafisica stava già nelle parole in essa usate, e non soltanto nelle frasi. All’epoca della Lettera di Lord Chandos l’ex poeta pensava ormai che neppure la poesia potesse riuscire a superare il confine tra il dicibile e l’indicibile, perché il mezzo del linguaggio era inadeguato, e l’obiettivo dell’espressività irraggiungibile. In seguito si dedicò a comporre testi letterari per le opere musicali di Richard Strauss, diventandone il librettista preferito.

Varianti dell’aforisma

Questa mossa espressiva vincente, consistente nel superare le limitazioni del linguaggio potenziandolo con la musica, l’aveva in realtà anticipata molto tempo prima Lorenzo Da Ponte: sempre a Vienna, e già in termini wittgensteiniani. Nel 1786, mentre stava lavorando con Mozart a un soggetto tratto da Le nozze di Figaro (1778) di Beaumarchais, qualcuno gli aveva fatto notare che poteva essere pericoloso, perché l’opera era stata proibita dall’imperatore Giuseppe II, che ci vedeva un’incitazione all’odio di classe. Ma Da Ponte aveva sentenziato: «Su ciò di cui non si può parlare, si può cantare».

Cantare musicalmente nelle opere, o liricamente nei poemi, non era però di aiuto ai romanzieri, che per il proprio uso e consumo inventarono un’altra variante dell’aforisma: «Su ciò di cui non si può teorizzare, si può raccontare». Questa versione fu esplicitamente usata da Umberto Eco, per spiegare ai suoi lettori che Il nome della rosa (1980) era la versione letteraria di un impossibile Trattato filosofico sul riso, al quale alludono inutilmente le discussioni tra Guglielmo da Baskerville e Jorge da Burgos alla fine del romanzo.

Il motto fu implicitamente adottato anche dai romanzieri viennesi degli anni Trenta, che a differenza di Eco non avevano niente da ridere, visti il luogo e il tempo in cui si trovarono a vivere. Tre di essi produssero, quasi contemporaneamente, altrettanti capolavori, che raccontano in forma romanzata la dissoluzione dei valori di cui la filosofia era impossibilitata a parlare: L’uomo senza qualità (1930–33) di Robert Musil, I sonnambuli (1930–32) di Hermann Broch e Auto da fé (1935) di Elias Canetti.

Quest’ultimo, premio Nobel per la letteratura nel 1981, ha tratteggiato in Il gioco degli occhi (1985) l’ambiente intellettuale nel quale i tre romanzieri convissero, interagendo fra loro e con il variegato ambiente intellettuale e artistico della città. Da parte sua, Broch ha fatto lo stesso con Hofmannsthal e il suo tempo (1974), mentre La Vienna di Wittgenstein di Allan Janik e Stephen Toulmin copre il periodo di collegamento tra l’inizio del secolo e i fatidici anni Trenta.

Tutti questi libri, dediti a raccontare ciò di cui non si può parlare, e a raccontare di coloro che lo raccontano, dimenticano di raccontare ciò di cui si può parlare, e che è più importante di tutti i racconti. Si tratta del fatto che il Trattato non era da prendere così seriamente, perché si sbagliava su molte cose. Se ne accorse Wittgenstein stesso, che dopo qualche anno scese dai monti e tornò alla filosofia.

E se ne accorse soprattutto il giovane Kurt Gödel, che mentre Musil, Broch e Canetti scrivevano i loro vaghi romanzi, dimostrò nel 1931, ovviamente sempre a Vienna, un preciso teorema, che in un sol colpo smontava la filosofia del Trattato, rifondava le basi logiche della matematica e apriva le porte all’informatica moderna. È lui l’unico vero e serio mistico della Vienna di inizio Novecento, ma ovviamente nessuno dei tre citati resoconti ne parla, perché su ciò che non si conosce, non si può raccontare.

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