Nel dicembre del 1968 Natalia Ginzburg ha scritto un breve saggio sulla vecchiaia. Poche pagine che tagliano come una lama affilata il confine fra l’età adulta e l’ultimo periodo della vita di ognuno di noi. A un certo punto – dice Ginzburg – smettiamo di stupirci e ci trasformiamo in una pietra immobile. «La vecchiaia vorrà dire in noi, essenzialmente, la fine dello stupore. Perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli altri. Noi non ci meraviglieremo più di niente, avendo passato la nostra vita a meravigliarci di tutto».

La fine dello stupore ci renderà immobili come pietre ed è questo – secondo la scrittrice – il tratto fondamentale della vecchiaia. A ben vedere nulla di particolarmente consolante.

Quando scrive quel testo Ginzburg ha 52 anni: è una donna adulta che osserva il mondo e immagina come sarà la sua vita di lì a pochi anni. Per una qualche casualità ho letto per la prima volta quel saggio quando anch’io avevo 52 anni e da allora non l’ho mai dimenticato. Immagino si sia trattato di una casualità fortunata perché se lo avessi incrociato anche solo qualche anno prima forse non mi avrebbe colpito tanto.

La vecchiaia è un argomento molto selettivo: interessa coloro i quali le si stanno avvicinando e chi la sta sperimentando ma resta fuori dal radar di tutti gli altri. Nemmeno la morte è un pensiero altrettanto distante dai discorsi dei giovani e degli adulti: del resto capita di morire giovani ma a nessun giovane capiterà di trovarsi improvvisamente vecchio, a meno di non essere il tenente Drogo de Il Deserto dei Tartari di Buzzati. «E non saremmo mai invecchiati», scrive Annie Ernaux ne Gli anni ricordando i pensieri della sua giovinezza.

Il confronto con l’oggi

Una domanda che mi sono fatto spesso dopo aver letto quel saggio riguardava la sua esattezza. Quelle pagine del resto sono state scritte più di mezzo secolo fa, così mi chiedo: sono ancora attuali? È cambiato qualcosa da allora nel nostro invecchiare? Una risposta breve potrebbe essere che non è cambiato molto, i pensieri di Ginzburg sulla vecchiaia restano attuali e perfetti, tuttavia forse meritano di essere in qualche maniera ampliati. Una risposta lunga potrebbe essere che forse qualcosa è cambiato.

Negli ultimi venticinque anni il mondo intero è stato attraversato dalla rivoluzione digitale: un cambio di paradigma potente e inedito che le società complesse gestiscono oggi con grande difficoltà. Per una volta, in questo caso, la parola “rivoluzione” non è un’esagerazione. Gli ambienti digitali si sono insinuati ovunque, hanno modificato prassi e consuetudini come mai era accaduto in passato; lo hanno fatto a tutti i livelli, in tempi molto rapidi e con modalità spesso ingenuamente assertive: a volte – semplicemente – ci hanno promesso un mondo e ce ne hanno portato un altro. Tutto questo “nuovo mondo” ha comunque modificato le vite di tutti: moltissime persone in tutto il mondo stanno così invecchiando in Rete. Noi, soprattutto, stiamo invecchiando in Rete. E allora forse la pietra immobile di Natalia Ginzburg si sta silenziosamente trasformando in una pietra immobile digitale.

Forse il problema è anche che parlare della vecchiaia ci rende tristi e quello che ci capita di fare, in ogni giorno della nostra vita, è provare, per quanto possibile, ad allontanare l’argomento dai nostri pensieri, fino al giorno in cui quell’argomento non diventa inevitabile. Così per me a un certo punto, quell’argomento è diventato inevitabile.

Qualche tempo dopo, quando il mio editor ha letto le prime bozze del libro che ho scritto sulla vecchiaia digitale, ricordo che mi disse che era molto bello e molto triste. Il sottinteso era che forse era troppo triste. Io l’ho ringraziato e non ho potuto non pensare alla fulminante risposta di Bruno Lauzi all’intervistatore che gli domandava come mai le sue canzoni fossero tutte così tristi. «Perché quando sono allegro esco», aveva risposto Lauzi.

Così ho scoperto che, a differenza di quanto io stesso pensassi, se guardiamo il mondo che ci circonda con gli occhi della vecchiaia, gli accenni e i rimandi alla vecchiaia stessa sono moltissimi e tutti intorno a noi, e le sue relazioni con gli ambienti digitali sono continue e intensissime. Diventiamo vecchi in maniera del tutto inedita e forse nemmeno ce ne rendiamo conto.

Paradossi

Mi pare esistano due paradossi che vale la pena citare quando proviamo a immaginare cosa sia diventato essere anziani nei tempi digitali. Il primo riguarda le tecnologie che utilizziamo ogni giorno per comunicare con gli altri, per discutere di politica, comprare un volo aereo o fare la spesa, per parlare con i nostri figli dall’altra parte del mondo, per guardare un film o seguire il nostro sport preferito. In una società occidentale che invecchia molto rapidamente (secondo uno studio di BBC del 2016, nel giro di pochi decenni il numero di profili Facebook di persone morte supererà quello dei vivi) le tecnologie sono “scritte” per i giovani: sono tecnologie anticicliche, vale a dire sono pensate da giovani per i giovani e vendute a un pubblico sempre più anziano.

Il secondo paradosso è quello della velocità. Anche in questo caso mi pare si tratti di un caso di ingenuo giovanilismo che abbiamo volontariamente adottato. L’idolatria della velocità è stato uno dei tratti fondamentali dei primi decenni delle reti digitali. Servivano connessioni velocissime, che trasportassero quantità di dati sempre maggiori. La quantità di informazioni disponibili ha così rapidamente soverchiato la qualità delle stesse. La superficie ha vinto sulla profondità. L’emblema di questa continua accelerazione è stato il Ping, un acronimo che volentieri associamo al ping pong ma che invece riguarda le performance delle reti informatiche. Più il Ping (Packet internet groper) sarà breve e più la rete sarà performante. Più la rete sarà veloce e più noi saremo moderni.

Gli ambienti digitali hanno inoltre consentito la nascita di una figura sociale inedita. Hanno creato una nicchia che era impensabile ai tempi di Ginzburg, e che oggi è abitata da uomini e donne che galleggiano in una situazione intermedia fra età adulta e vecchiaia: la nicchia del “vecchio giovane”. Una sorta di spazio rallentato, fortemente mediato dal contesto digitale, dentro il quale milioni di persone in tutto il mondo si oppongono come possono al passaggio verso l’ultimo periodo della loro vita. Lo schermo glielo consente, la vita reale no.

I nuovi ribelli

Sia come sia poi tutti diventiamo vecchi e a questo punto forse sarà lecito chiederci cosa potranno fare gli anziani per rendere la vecchiaia digitale maggiormente adatta a loro. Forse nulla. Forse una visione meno euforica dell’innovazione, quando essa riuscirà finalmente ad allontanarsi dalla fase primordiale nella quale è attualmente immersa, saprà interpretare meglio i tratti somatici della società digitale.

Per ora siamo fermi alla retorica del giovane ribelle che innova la società rompendo schemi e convenzioni a colpi di codice, che chiede a gran voce agli anziani di spostarsi e non intralciare la porta (come cantava già Bob Dylan nel 1964), che domanda ai potenti dell’industria di farsi da parte perché il digitale sta per travolgere tutto (come scriveva John Perry Barlow nella dichiarazione di indipendenza del cyberspazio nel 1996).

Ingenuità per ingenuità potremo forse sperare che, un istante prima della propria raggiunta immobilità digitale, gli anziani sappiano domani far valere la propria rilevanza numerica ed economica e si trasformino nei nuovi ribelli. E facciano in modo che le tecnologie inizino ad essere scritte anche per loro. Appena in tempo per comprendere che una società rallentata, una società “a ping lungo” sarebbe una società migliore per tutti, giovani compresi.

E ora, se volete scusarmi, è una bella giornata: esco.


Il testo è un estratto dal nuovo libro di Massimo Mantellini, “Invecchiare al tempo della rete”, appena pubblicato per Einaudi.

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