Il mese scorso, il Senato italiano ha clamorosamente bocciato il Ddl Zan (n. 2005), una proposta di legge del Partito democratico contro l’omotransfobia, le discriminazioni di genere e l’abilismo. Anche nel suo affossamento questa legge è stata innovativa, avendo persino riesumato il Concordato del 1984 tra la Repubblica (in teoria laica) e il Vaticano.

So che in Italia il dibattito è stato, ed è ancora, acceso. Anche negli Stati Uniti, dove vivo e studio, la legge Zan è stata discussa sui giornali in lingua inglese e negli ambienti universitari, perché è arrivata in un momento in cui sta nascendo (ma è già vivace) un campo di indagine accademico sulla storia queer specificamente italiana, e sul fenomeno molto europeo dei movimenti “anti-gender”.

Per una volta, su questi temi, si traduce dall’italiano all’inglese e non viceversa: lo sguardo è puntato sull’Italia da questa sponda dell’Atlantico. Dalla mia prospettiva, questo dibattito è soprattutto utile a riportare in luce la lunga, importante e complessa storia sia dell’attivismo che del contro-attivismo sulla sessualità e sul genere nel paese che studio.

LaPresse Marco Alpozzi

Solidarietà transnazionale

Vorrei insomma condividere le mie speranze sull’eredità futura della legge Zan, dal punto di vista di chi dall’estero segue con passione le vicende italiane. Lo faccio come giovane uomo, gay e americano, che sta conseguendo un dottorato in storia europea concentrandosi sulla sessualità nell’Italia moderna, come italianista per cui l’italiano non è la madrelingua.

Spero che la mia prospettiva possa contribuire a una solidarietà transnazionale verso il movimento per i diritti in Italia, e forse anche fornire qualche contesto aggiuntivo ai problemi che la legge Zan ha messo al centro del dibattito nazionale, con una attenzione particolare alla storia (non poi così recente) dell’attivismo gay da Trieste in giù (anche un po’ su).

Dopotutto Lady Gaga è apparsa di recente sulla tv italiana a testimoniare la sua solidarietà. E Sophia Loren, altra icona gay, viaggiava tra Roma e New York per promuovere un film come Una giornata particolare (1977). E penso anche al compianto Massimo Consoli, che traeva ispirazione per il suo attivismo dai suoi viaggi negli Stati Uniti e che desiderava posizionare il passato Lgbtq+ italiano in una conversazione con altre linee nazionali, e così dare un respiro più ampio alla politica specifica del suo proprio paese.

Studiare il “caso” Italia

Ciò che mi porta a ragionare in particolare su questo caso è il mio interesse intersezionale per le questioni di fede e di inclusione e, di conseguenza, per la lotta degli italiani e delle italiane queer per i propri diritti nell’ambito di un diffuso cattolicesimo e dell’ombra lunga di un regima fascista ufficialmente concluso solo poco più di mezzo secolo fa. È un case study interessantissimo, spesso ingiustamente snobbato da chi non ha legami personali con l’italianità.

Per sei anni, a questo punto, ho avuto il privilegio di studiare la storia della sessualità in Italia: da quella “bibbia gay” scritta da Mario Mieli e ormai letta in tutto l’occidente che si intitola Elementi di critica omosessuale (1977) ai moltissimi periodici italofoni di liberazione sessuale e sulla vita gay degli anni Settanta e Ottanta, fino ad alcune opere belle e divertenti come la Madonna di Pompei (1980) di Ciro Cascina, che «vuole bene pure ai gay» – in quel pezzo di teatro, la Vergine partorisce un bambino “diverso” e, come in fondo spesso nei tanti topoi su Gesù, omosessuale.

Tutti i lavori che ho scoperto e studiato per la mia ricerca portano alla luce un enorme sottobosco culturale: contro-letture satiriche ma genuine, che si potrebbero esplorare sia negli studi in inglese che in quelli in italiano, anche loro spesso smemorati su un passato in realtà ricco. Diversi li ho trovati l’estate passata, in un viaggio di ricerca a Milano, ad Antigone, una libreria/biblioteca piccola ma bella dove si può comprare un adesivo con la parola “frocia” e una borsa rossa e comunista.

Il caso unico del Vaticano

La legge Zan, che funziona come un’espansione della legge Mancino già a difesa delle identità razziali, etniche e religiose, non è unica nel panorama internazionale, ma è unico il potere che il Vaticano ha potuto avere nella sua vicenda. Anche per questo, come storico, mi interessa così tanto.

Il Vaticano ha interpretato il disegno di legge come un’infrazione al Concordato che riformò i Patti lateranensi nel 1984, richiedendo al parlamento di modificare la proposta in conformità con quegli accordi.

Sulla stampa in inglese e, per quanto ho visto, anche su quella italiana, questa posizione è stata interpretata come un modo per il Vaticano di farsi latore di una retorica del “naturale” contro la cosiddetta “ideologia” del gender. Così facendo, il Vaticano ha legittimato, se non influenzato direttamente, le posizioni sulla sessualità della destra identitaria e le campagne “anti-gender” che, diffondendosi in tutta Europa nell’ultimo decennio, hanno spinto addirittura Judith Butler a ragionare sulla “intraducibilità” del gender stesso, come parola e come concetto.

Il fatto che il Vaticano abbia scelto di usare i Patti lateranesi e il Concordato del 1984 in risposta alla legge Zan mi risulta una novità. Basti pensare alle legislazioni passate su cui invece è rimasto zitto.

La legge n. 76 (2016), per esempio, in parte una modifica al diritto al domicilio familiare della legge n. 151 (1975), che permette il riconoscimento limitato delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. O la legge n. 221 (2015) che ha finalmente superato la legge n. 164 (1982) per cui la riassegnazione del sesso poteva essere riconosciuta solo attraverso un intervento chirurgico.

Già negli anni Sessanta il neofascista Movimento Sociale Italiano proponeva provvedimenti anti-omosessuali come la legge n. 2990 (1961), sulla base del (fallito) disegno della legge anti-omosessuale proposto sotto il regime fascista italiano – che, a sua volta, si basava addirittura sull’articolo 175(b) del codice penale del Terzo Reich. Tali leggi – residui o ritorni del fascismo direi, e della cosiddetta “eugenetica positiva” della Chiesa – sono ulteriormente complicate, in prospettiva, dal pubblico ricorso al Concordato del 1984 per fermare la legge Zan.

L’attivismo non è nato ieri

Perché proprio ora il Vaticano ha deciso di parlare attraverso l’eredità dei Patti lateranesi? Come chiede più in generale il giornalista Francesco Merlo, «Chi ha paura della legge Zan?».

Posso solo suggerire che la decisione abbia le sue origini in una storia più lunga, la storia di una paura dottrinale verso le politiche dell’identità e verso chiunque osi resistere alla coniugalità eterosessuale come paradigma essenziale della socialità.

Questa non è affatto una nuova prospettiva: l’attivismo, sino almeno dagli anni Settanta, ha sempre analizzato e combattuto la “norma.” Ma anche le idee alla base della Legge Zan vengono da lontano: l’omotransfobia di cui parla è radicata, come concetto, nel lavoro dei pensatori italiani degli anni Sessanta come Luigi de Marchi, che parlava di “sessuofobia” nel suo Sesso e civiltà (1963) dando un importante contributo agli studi di genere e sessualità.

Se leggiamo la legge Zan non come un’espressione del presente ma come la manifestazione più recente di una lotta lunga e continua, ormai di una tradizione, essa diventa un punto di continuità molto importante nel progresso Lgbtq+ in Italia.

Studiare a Roma a ferragosto

L’eredità potenziale della legge mi fa pensare al mio primo viaggio in assoluto Italia, a 19 anni, nel 2017. Era la mia prima volta in Europa in generale, e ho soggiornato in un hotel per quattro settimane su viale Vaticano.

Erroneamente, da vero straniero, ho scelto di fare ricerche proprio nel periodo di ferragosto. In quella occasione ho avuto la fortuna di incontrare l’artista spagnolo Gonzalo Orquín nel suo appartamento a Roma. Orquín aveva appena fatto notizia con il suo progetto di mostra, Sí, quiero, in cui fotografava coppie gay e lesbiche mentre si baciavano all’interno delle chiese cattoliche romane. L’artista ha ovviamente ricevuto un ordine di cessazione dal Vaticano, che ha altrettanto ovviamente pubblicato all’interno del catalogo della sua mostra.

Facendo ricerca su Orquín all’ombra di San Pietro, ripensavo a quel che avevo studiato negli Stati Uniti sulla storia recente dell’attivismo Lgbtq+ in Italia. In particolare a come il Giubileo del 2000 ha coinciso emblematicamente con la prima marcia internazionale del World Pride, proprio a Roma. Solo due anni prima Alfredo Ormando, lo scrittore palermitano, si suicidava dandosi fuoco in piazza San Pietro per condannare la Chiesa per la sua repressione dell’omosessualità, come un martire Lgbtq+.

Tra orgoglio e martirio ci sono tante storie da scoprire, fortunate e tragiche, nell’attivismo queer in Italia. Il fallimento corrente della legge Zan è un momento di grande dolore per chi, come me, ha scoperto i Queer studies da laureando in visita a Roma, ma questa questione può servire come un percorso per una militanza appassionata se ci sforziamo di guardare ai dibattiti correnti in prospettiva, attraverso la storia che li ha resi possibili.

Più interviene il Vaticano, più applaudono i benpensanti e i neofascisti, più chiara è la lotta. Ma queste forze del passato non dovrebbero avere l’ultima parola.

Per citare un attivista gay italiano, Ivan Teobaldelli, «Se son finocchi, fioriranno!». Allora, fioriamo!

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