È la quinta volta in due settimane che getto la testa indietro per frugarmi le narici con un bastoncino, su per il setto fin’oltre ai seni, dove alle medie si puntava il dito scoprendo che non è necessario toccarsi per farsi male a vicenda, e basta invece una certa posizione, una certa prossimità. Un dito sospeso – o una penna, un lapis – tra gli occhi, dove si incontravano le sopracciglia che da tempo, maschio millennial, non mi vergogno più di separare con le pinzette.

È l’unico punto del corpo penso, almeno del mio, capace di avvertire dolorosamente la minaccia di un altro corpo, estraneo ed esterno. Ho sentito addirittura un formicolio in quel vuoto dentro la testa, dietro la pelle, quando la guardia, all’ingresso dell’ospedale, ha puntato lì il laser del suo termometro, che ora vorrei capace di sondarmi le cavità da fuori, risparmiandomi il necessario fastidio della perlustrazione interiore in cerca di proteine che denuncino la presenza di patogeni.

Mi sto infilzando le nari per tornare in quell’ospedale, in visita a una persona cara, carissima, da cui mi separano i giusti scrupoli della nostra povera sanità martoriata. Voglio essere certo di portare con me solo frutta e salviette rinfrescanti, una tregua di creme per la mia congiunta nell’ora, a giorni alterni, in cui posso vederla; nessuno sgradito passeggero virale.

E invece, ahimè, non varcherò quella soglia. Perché stavolta, tra dieci minuti, il prodotto della cerca lungo le vie aeree superiori segnerà due linee purpuree sul piccolo totem di plastica candida, marcando entrambe le esoteriche cifre (C, T) in rilievo a destra della striscia di carta. Sono positivo.

Rituali nasali

Quando ero ancora negativo, in fila nel parcheggio di un paesino lungo l’autostrada per Civitavecchia, sul retro dell’unica farmacia della regione in cui fossi riuscito a prenotare un test durante queste nefaste vacanze invernali, ho avuto agio di osservare altre persone che subivano il tampone.

Non funzionava così a Filadelfia, sotto le volte di laterizio di un mercato all’aperto che pochi secoli fa era un mercato di schiavi, perché lì, alla marmaglia in coda, si davano le spalle, e il naso solo all’officiante guantata, con la sua visiera di polipropilene trasparente.

Né funzionava così all’università, nel chiostro copiato pietra a pietra da un college oxoniense: si usciva soli al proprio turno, chiamati da una campanella, come al confessionale.

A venti chilometri da dove sono cresciuto invece, vicino alle foci del Tevere presso cui le anime purganti di Dante s’imbarcano sulla navicella angelica che li porterà nell’emisfero da me lasciato a metà dicembre su un volo “covid-free”, si vedeva tutto di tutti: maschera abbassata fino al ciglio delle labbra, sonda che entra e permane, si avvita, esce e rientra, lacrimucce e colpetti di tosse, sventaglio di fazzoletti sulla faccia.

Questa visione, nei vapori del mattino di provincia, ha evocato in me l’immagine del sussidiario in cui s’illustrava la preparazione dei corpi faraonici per il viaggio oltremondano. Il cervello, se non ricordo male, non era un organo da vaso canopo per gli antichi egizi che si studiano alle elementari ma bensì uno scarto, da estrarre con sottili uncini attraverso il naso, lungo la stessa traiettoria percorsa dalla matita di Joker quando schianta con un colpo di prestigio lo sgherro del capomafia di Gotham in The Dark Knight.

Il punto debole

C’è una fragilità speciale nel naso, raddoppiata per noialtri maschi in quella specialissima delle gonadi, protrusi bersagli per gli accidenti di questo mondo. Solo che il naso, quando funziona bene, è essenzialmente un punto d’accesso, un cancello del corpo.

Lytton Strachey, di cui nella prima annata monastica di Covid ho tradotto le lettere a Virginia Woolf, scriveva all’amica di cui era platonicamente innamorato insistendo spesso sullo stato del proprio naso, tanto che Chiara Valerio, co-autrice della traduzione, voleva intitolare l’epistolario Mondanità e raffreddore.

Non è però sulla cagionevolezza del naso, esposto alle intemperie e alle varie qualità dell’aria, che vorrei scrivere in questa mia prima serata d’isolamento da positivo. La fragilità che m’interessa è più banalmente fisionomica, cartilaginea.

È quella che terrorizza i bambini quando gli si posa una mano sul viso e poi si infila il pollice tra indice e medio, mimando una castrazione facciale cui porre immediatamente rimedio con l’esilarante, rassicurante restituzione del maltolto. È quella per cui ha senso, nei film di botte o nelle risse vere fuori dallo stadio, lanciarsi di testa sul centro della faccia di un avversario (partire di capoccia, si dice dalle mie parti) destinando al punto debole costituito dal naso la solida protezione ossea della fronte, che pure custodisce più preziose carni con buona pace degli egizi. È quella per cui Hannibal Lecter, per liberarsi dalla sua elegante cella accompagnato dal Bach di Gould nel mangianastri d’antan, si avventa rapido sul naso del carceriere coi bestiali denti di cannibale, e solo dopo gli rivolge il suo stesso manganello, per finirlo.

Nasi improvvisi

Su di me, l’effetto immediatamente evidente della pubertà fu un’improvvisa crescita del naso che mi distinse dalle ragazze. Mi distinse anche, mi pareva, dai ragazzi belli, che erano belli perché ogni elemento della loro fisionomia rimaneva invece piccolo e delicato.

Non mi consolavano affatto gli adulti che mi assicuravano che un naso “importante” è tratto desiderabile negli uomini. Quale ragazzo anche solo un po’ felice, del resto, vuole davvero diventare un uomo?

La sproporzione del naso, prima dell’insorgere dei peli e del calar della voce, è stata la prima evidenza della mia irreversibile crescita, impossibile da nascondere, e già notavo come nei vecchi esso continuasse a crescere ancora. Un presagio di morte.

Non so se ho mai smesso di soffrire per il fatto di non poter controllare la forma e il volume del mio naso, che ho sempre percepito come un’appendice estranea, un impaccio. Non so neanche se una donna può intuire fisicamente l’angoscia di Pinocchio, il cui naso si dilunga dall’inizio, senza che Geppetto lo scolpisca, ben prima dell’inarrestabile imbarazzo della scena con le bugie chiusa dal terrificante irrompere degli uccelli a ridimensionarlo.

O quella di Kovalëv nel racconto di Gogol, in cui l’ingovernabile e irrintracciabile naso perduto agisce di propria sponte, fermato solo alla frontiera prima che possa espatriare.

Non perché le donne non abbiano i loro problemi con l’ingombro del naso, ma perché immagino non li associno all’oscena incontrollabilità della virilità, che anche sembra essere una persona a sé nel sé di ogni maschio illuso di essere mosso da una volontà sola, al riparo del cranio.

Cicatrici da duca

Devo confessare dunque che delle ffp2 mi piace come nascondono il naso, conferendoci musi o becchi uniformi e identici. A rigor di logica sono identiche anche, nella loro perfezione, le facce delle anime partite dall’estuario dove mi sono fatto il tampone ancora negativo dieci giorni fa, una volta purgatesi e assunte oltre il primo mobile prima di ottenere i propri corpi celesti promessigli da Dante alla fine del mondo. Immagino quelle anime con nasi piccoli, dritti come quelli degli angeli gotici. Oppure senza naso, giacché quello di Laura Petrarca non lo menzionò mai.

Eppure dovrei invece apprezzare la maschia gobba del mio naso vistoso, incurante della propria esposta vulnerabilità di cui sopra. Federico da Montefeltro, magnifico duca dell’Urbino quattrocentesca, perdette la sommità del naso adunco per un colpo di lancia che lo fece più militarmente credibile.

Il vuoto, proprio lì dove tamponi antigenici e molecolari danno più bruciore, è ben visibile nei meravigliosi ritratti che Giusto da Guanto, Botticelli e soprattutto Piero della Francesca dipinsero per eternare Federico: umanista e condottiero, principe dal fiero naso sfregiato.

Tyrion Lannister, nei libri di Game of Thrones, si rallegra della tremenda ferita subita nella battaglia di King’s Landing: tagliandogli via mezzo naso, il fendente che quasi lo uccide certifica anche il suo valore marziale.

Mi rimiro nello specchio della camera in cui trascorrerò i prossimi sette giorni almeno e so che è dal naso, ai miei occhi tanto grande, che è entrato il virus. Ma, grazie alle tre dosi di vaccino, è probabilmente lì e poco oltre che resterà, senza scendere a squassare i polmoni, senza lasciare cicatrici da duca.

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