Normalmente, Michele Matteini si occupa di pitture cinesi del Diciottesimo secolo e collezionisti di oggetti coreani. Ha imparato a farlo a Venezia e poi a New York, dove ora è tornato (ma da professore) dopo aver insegnato arte asiatica in alcuni prestigiosi college americani.

Quando però nessuno lo guarda fa la cernita delle reliquie esposte in santuari e chiesette di Manhattan, risulta tra i pochi italiani a riuscire (quasi) a vedere i Måneskin dal vivo al Bowery Ballroom, scopre gelaterie downtown in cui crocicchi devozionali di stans adolescenti organizzano distribuzioni di santini degli idoli del Korean Pop.

Avrei dovuto incontrarlo a Princeton, un posto minuscolo dove i nostri soggiorni (io all’università, lui all’istituto di Advanced studies) si sono sovrapposti per almeno dieci mesi, o in Oregon, dove ora sono in visita di ricerca e lui ha avuto una cattedra per diversi anni. E invece l’ho incontrato su Instagram, quando ho cominciato a scrivere, su questo giornale, di canone letterario queer e drag queen in tv, temi su cui lui mi ha menzionato nella rivista online più chic del mondo dell’arte statunitense, Hyperallergic.

Cose da maschi ancora non esisteva, ma già allora gli avevo strappato la promessa di scrivere a proposito di un oggetto cruciale per l’immagine e la performance della maschilità: il calzino.

Sono andato a batter cassa a New York e Michele, dopo avermi portato a mangiare dall’israeliano più buono del Greenwich Village e poi ad ammirare i ragazzini travestiti da film di Wes Anderson in chilometrica coda al giallissimo Café Le Sans Blague (un pop-up manifestatosi improvvisamente per promuovere l’uscita al cinema di The French Dispatch), mi ha dato picche.

Mi ha detto, da autentico apolide pentecostale tra quattro o cinque lingue: «Scusami, ma non so scrivere in italiano». Allora gli ho chiesto almeno di chiacchierare insieme di calzini (e fantasmini, come si vedrà), sulla base di un’iconografia da lui scelta liberamente. A quel punto ha, come si dice a Roma, abbozzato, e quanto segue è il risultato della nostra conversazione.

Critica del calzino: con o senza

Il termine “critica” radica nella stessa etimologia greca che produce parole come “crisi”, e ha dunque a che fare con l’atto del separare, dello spartire: del porre un discrimine tra cose altrimenti indistinguibili e sorelle.

La critica del calzino che abbozzo col critico d’arte Michele Matteini parte perciò da una distinzione fondamentale, che conduce alla domanda: è più da maschio indossare o non indossare i calzini?

Le due macro-categorie di uomini risultanti (con o senza), mi dice Michele, compaiono con quasi identica frequenza sui viali di Washington Square Park: caviglie nude o fasciate, in entrambi i casi eloquenti. Ci troviamo d’accordo; un visibile calzino fa l’uomo domestico (o meglio, addomesticato), rassicurante, specie se in tono col resto degli abiti: segnala che il portatore si prende cura di sé.

Forse proprio per occupare la rimanente nicchia di rischio e selvatica imprevedibilità alcuni decidono dunque di girare sfacciatamente senza calze promettendo, con quella minima nudità da vestiti, di essere più selvaggi, meno urbani e curati, di quanto non si direbbe altrimenti.

Dico a Michele del famoso Narciso che Roberto Longhi attribuì a Caravaggio, e che recentemente Susanna Berger (una geniale storica dell’arte della University of Southern California) ha messo al centro dei suoi studi scrivendo saggi dai titoli brillanti tipo From Narcissus to Narcosis.

Due o tre anni fa Berger mi chiese di consigliarle qualche lettura barocca sul tema del ginocchio, perché la ossessionava un inspiegato fatto compositivo di quel capolavoro pittorico – al centro di tutto, visivamente, c’è appunto il ginocchio del protagonista, riflesso nell’acqua: il punto massimo di luce, un groviglio di carne che emerge dalle abissali oscurità dello sfondo.

Scorrendo per lei poesie e trattati del Seicento mi accorgevo che il ginocchio dei giovinetti era sito, per chi ne scriveva, di una concentrazione erotica inquietante: l’ultimissimo brano di pelle che si possa esibire prima dell’indecenza, una finisterre dello sguardo accettabile.

Da vero storico dell’arte (mica come me), Michele rilancia con un più ficcante e meno noto esempio di seduzione primaria caravaggesca, mostrandomi il virilmente discinto San Giovannino custodito nel Nelson-Atkins Museum di Kansas City: un pastorello tenebroso e scalzo il cui piede destro, come il ginocchio del cugino Narciso, è il vero protagonista del quadro. La nudità di quei malleoli, di quel proverbiale stinco di santo che a tutto allude fuorché alla santità, è quasi imbarazzante. Anche perché si congiunge e si mescola con la sostanza pastosa di una verdura a foglia larga che esplode dal terreno, confermando il binario critico che abbiamo stabilito.

Domestico indossandolo, quando ne è sprovvisto il maschio fa del calzino assente un «significante enigmatico» (è Michele a citarmi Laplanche), un’esca intesa ad attivare l’immaginazione e il sospetto di chi guarda verso il reame del selvatico, del boschivo. Forse per questo Pasolini, col suo sguardo erotico addestrato proprio dalle lezioni di storia dell’arte di Longhi, cita così insistentemente quel San Giovannino nei proletari adolescenti in costume del suo La ricotta, scalzissime prede fatalmente destinate a convertirsi in accattoni predatori.

Fantasmi di Fantasmini

Interessato alla queer theory, fanatico del saggio sulla luce di Caravaggio di Leo Bersani e Ulysse Dutoit (che temo non sia ancora tradotto in italiano, sebbene in francese esista: uno scandalo!), Michele mi incoraggia a spezzare il binarismo, a superarlo.

Sfodero dunque il mio compromesso preferito, il fantasmino: fantasmatica presenza/assenza del calzino – mi auguro che chi legge abbia presente di cosa parlo. Il fantasmino, per me, è lo schwa delle calze maschili, nonché la terza sponda che libera noialtri uomini perbene ma anche aerei, soffici ma pienamente cis, dalla scelta obbligata tra morigerati calzettoni quattro stagioni ed estive nudità ferali un po’ spaccone. Salva la funzione igienica di separare il piede dalla scarpa ma senza vergognarsi di esporre le caviglie, isola il piede come irriducibile estremità da proteggere o nascondere ma lo fascia anche, esibendone discretamente i volumi.

Michele non ci sta, mi falcidia. Il fantasmino per lui è una fregatura comunque: disattende sia le aspettative chi cerca, in chi lo porta, rassicurazione, sia di chi spera in un guizzo forastico. Invece di essere un’alternativa, è solo un quasi calzino. C’è da preferirgli, mi dice, persino l’eponimo singolo superstite borghese e un po’ sfigato del Nudo d’uomo con calzino di Giulia Blasi, un libro esilarante che qualche anno fa illustrava le disavventure dei maschi tipici (e dunque calzinati) a letto. Siamo però d’accordo sul fatto che il vero orrore è una terza, infausta opzione: il calzino corto, a metà polpaccio.

I calzini da maschi, si sa, sono lunghi (fin sotto al ginocchio) come quelli dei cicisbei mozartiani dei film in costume. Chi li tiene a mezz’asta, incoraggiando il mercato di convenienti abomini a mezza lunghezza, pensa forse di risultare più maschile, più sportivo, associando la calza lunga al gambaletto femminile. Nulla di più assurdo. Anche se, estraendo foto d’archivio, Michele chiosa che i maschilissimi Beat (Kerouac e Ginsberg in particolare) apparivano volentieri col calzino mollo, abbassato, ravvolto alla base della gamba.

Tom Cruise

Per corroborare le sue posizioni Michele mi propone decine di altre immagini. Dovremmo soffermarci sulla gamba celibe di Robert Gober esposta al MoMA, con quel suo grigio calzino invernale troppo corto per coprire i peli iperrealistici. Ma l’icona su cui rimaniamo a parlare per due ore è un’altra: uno still da Risky Business, il film del 1983 che ha lanciato Tom Cruise.

In camicia e mutande, danzando nel salotto suburbano disertato dalla famiglia (l’eloquente, e come sempre goffo, titolo italiano del film è Fuori i vecchi... i figli ballano), il giovanissimo Cruise incarna un’americanità di disarmante purezza.

Ecco lì il famoso “maschio etero bianco” che Michele Serra non ha colpa, poverino, di essere. Ma è solo alla vigilia del suo potenziale nocivo, come i cuccioli di tigre che certi matti in Florida si mettono in casa senza badare all’imminente minaccia. E soprattutto indossa i calzini bianchi di spugna, quelli da spogliatoio, che i giovani uomini statunitensi indossano nell’età (ben più lunga che da noi) in cui la maschilità gregaria coincide con lo sport.

Quel calzino bianco è una interruzione della forma, un non-oggetto che oblitera qualsiasi informazione volumetrica. Sotto ci potrebbe essere il piede di chiunque, anche lo zoccolo di caprone di un demonio.

Michele mi spiega che nella pittura erotica cinese si vede tutto tranne i piedi, che trascendono i limiti della rappresentabilità. I motivi antropologici e di genere sono diametralmente opposti, ma la questione è quella della vulnerabilità, la cui protezione sospende qualsiasi seduzione.

Chi l’avrebbe detto che il ginocchio di Caravaggio fosse meno osceno del piede di Tom Cruise? O che anche il calzino, come molti altri oggetti al centro di questa rubrica, è infine un brano d’armatura che nega il terrore (ma perché?) di fragilità esposte.

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