Quando avevo nove anni è uscito Metallo non metallo dei Bluvertigo. Guardavo Mtv di nascosto col mio vicino di casa, nel suo soggiorno meno supervisionato del mio, e Morgan e Andy, smilzi a torso nudo col trucco e i capelli arancioni, mi apparivano come l’avanguardia estrema dell’adultità. Strillavano le ragazze, li invidiavano i ragazzi – per coniugare all’imperfetto quel che dice ora di sé, venticinque anni dopo, Sfera Ebbasta, il quale pure ha la chioma colorata, sta a torso nudo, sfoggia, come sappiamo, varie collane, ed è famoso come una popstar.

Uno dei singoli di quel loro disco per me epocale si chiamava Fuori dal tempo e diceva: «Anche se per caso mi piacessero i fiori / non è detto che io debba fare il fiorista: ⁄ il questionario dei tre giorni / è proprio fuori dal tempo». A nove anni mi pareva normale non capire una mazza delle canzoni che mi facevano sentire grande. A diciannove, rinfrescando la mia passione preadolescente per i Bluvertigo quando Morgan tornava in auge partecipando a X-Factor, mi spiegavo quei versi col surrealismo à la Battiato del nostro pop intelligente.

Ora però so che invece non mi dicevano niente perché, nato nel 1988, non sono mai stato obbligato ad attraversare il rituale che ha accomunato, per 143 anni, la quasi totalità dei maschi di cittadinanza italiana venuti al mondo prima di me: la visita di leva militare. Il «questionario dei tre giorni» era un test psicologico che si somministrava a tutti i giovani costretti a lasciarsi misurare dallo stato per essere dichiarati idonei, rivedibili o riformati. Nella caterva di affermazioni da segnare come vere o false in quel test spiccavano, per la loro apparente incongruità, le due questioni floreali della canzone dei Bluvertigo: “mi piace raccogliere fiori” e “mi piacerebbe fare il fiorista”.

I fiori e la leva militare

A un certo punto, all’università, a Mtv ci sono andato a fare, come si dice, il “pubblico parlante”. La trasmissione si chiamava Pugni in tasca, un talk show giovanile assurdamente presentato da Mario Adinolfi. In studio c’era Vladimir Luxuria (allora scintillante parlamentare di Rifondazione comunista) e si parlava appunto di leva militare, di come il servizio, anche volontario, sia da sempre stato negato a categorie di maschi che risultassero affette da ciò che un tempo si è chiamato “inversione sessuale”, poi “devianza”, poi “disturbi della sessualità” e, più di recente, “dell’identità di genere”.

La voce che girava era che chi avesse risposto, nel test, di apprezzare i fiori e di considerare la carriera di fioraio (nonché di dipingere volentieri i fiori in una terza, più artistica domanda), doveva poi subire lo scrutinio di un terapista capace di determinare se tali indizi di scarsa virilità non celassero i “disturbi” e le “inversioni” considerati incompatibili con la vita militare.

Luxuria, con la sua simpatia foggiana esaltata da una romanità d’elezione, ci fece sapere che lei, avendo dovuto presentarsi ai “tre giorni” per questioni anagrafiche, i fiori se li era messi nei capelli, comparendo alla convocazione ingioiellata e piena di trine in un costume da piratessa che rese il test superfluo: riformata senz’altro, inadeguata alla leva.

Mi domando se davvero quelle domande sui fiori servissero a individuare i ragazzi omosessuali e bisessuali, o le ragazze trans tra le fila di chi doveva obbligatoriamente recarsi alla visita militare dei maschi coscritti. Forse no, ma è interessante che la leggenda perduri ostinata: la trovo ancora immediatamente cercando sui forum, spesso confermata da chi il servizio forzato l’ha vissuto. Perché è così facile pensare che se a uno piacciono i fiori debba essere escluso dal consesso dei maschi idonei, virili, adatti allo spartano cameratismo della caserma?

Pascoli, Leopardi e Batman

I nostri maggiori poeti della tarda modernità si sono accapigliati sui fiori. Leopardi, nel suo Sabato del villaggio, mette in braccio a una villanella un mazzolin di rose e viole che fece imbestialire Pascoli, campagnolo vero che di botanica se ne intendeva: le rose e le viole non crescono nella stessa stagione, che senso ha descrivere una scena popolana mettendoci fiori di serra, come fosse un presepe?

Se uno guarda ai fiori con realismo biologico, come Pascoli, non può che notare come non ci sia niente di essenzialmente femminile o effeminato in loro, anzi. Sono fallici ed ermafroditi, portatori e ricettacoli di pollini, sonde sessuali protruse dalle piante. Nel Gelsomino notturno, una poesia dedicata a un amico che si sposa e tesa a trasfigurare l’amplesso ancora ragazzino della sua prima notte di nozze in un lunare idillio di giardino fecondo, i fiori di Pascoli fanno l’amore al buio nell’effluvio dei loro maturi pistilli, che sanno di frutta, e vanno a dormire tutti stropicciati quando spunta il sole, come amanti esausti e già gravidi («Dai calici aperti si esala / l’odore di fragole rosse […] È l’alba: si chiudono i petali / un poco gualciti; si cova, / dentro l’urna molle e segreta, / non so che felicità nuova»).

Perdonatemi queste tiritere da professore del liceo vecchio stile, ma in quanto italianista mi scoccia che si pensi ai fiori come a una languida innocua cosa romantica. Sono un fan di Poison Ivy, la castrante seduttrice velenosa interpretata magistralmente da Uma Thurman nell’orrendo Batman&Robin di Joel Schumacher, e ho capito subito che c’era da temere il perfido giovanotto rachitico, nel Potere del cane di Jane Campion, quando l’ho visto intessere fiori di carta e stoffa con gli occhi vitrei del killer in erba.

Il Batman fico di Christopher Nolan d’altronde, istruito da Ra’s al Ghul, riceve come prima missione ninja il compito di recuperare un fiore di montagna, con cui poi la Setta delle Ombre lo droga e finisce per drogare tutta Gotham City in un delirio di terrore allucinogeno. I fiori sono pericolosi, a volte aggressivi, sessualmente attivi. Ma appunto il Romanticismo (o meglio, una certa visione vittoriana e modernista delle norme sociali romantiche) ce li ha fatti apparire inerti, esaltandone la fragilità e la bellezza. Li ha resi il dono per eccellenza che il gentiluomo deve impugnare per comunicare una serie di cose alla donzella: rimorso, interesse, attenzione, nascita o conferma dell’amore. Mi pare significativo che i destinatari designati dei fiori come merce siano le donne, che agli uomini li si regalino solo se malati o morti.

Bart Simpson e Bambi

In un episodio classico dei Simpson, Homer rimane sconvolto dal fatto che suo figlio Bart, dopo aver incontrato un carismatico uomo omosessuale, cominci a indossare camicie a fiori. Tormentato, si mette a masticare il cuscino di notte svegliando Marge, cui spiega che quelle camicie fiorate le indossano solo due tipi di uomini, «i gay e i panzoni buontemponi», e che il loro bambino (a differenza di lui) «non sembra proprio un panzone buontempone».

Non riesce a capire che John, l’antiquario assai camp che ha attivato la sua omofobia, non ha affatto influito sull’orientamento sessuale di Bart: gli ha solo mostrato che esistono ben più opzioni, per la maschilità, rispetto al rigido binario abitato da suo padre. Gli ha rivelato insomma che non è necessariamente destinato a diventare un panzone buontempone, pur non essendo gay.

Riguardando Bambi, un cruciale capolavoro inquietante sulla maschilità, mi ha sbalordito la scena in cui il capriolo protagonista incontra per la prima volta una puzzola (un puzzolo?) in un campo di fiori. Gli hanno appena insegnato cosa siano i fiori e, trovando il nuovo amico tra di essi, lo indica col muso e ripete la parola che ha appena imparato: «Fiore!». Tamburino, il coniglietto, scoppia a ridere e corregge Bambi, ma l’altro si affretta a interrompere la spiegazione: è lusingato, non gli dispiace essere chiamato Fiore. Bambi rilancia, dicendogli che è un fiore bellissimo e lui arrossisce, felice per il complimento. Fiore diventa il suo nome, risponde a quel nome anche dopo la pubertà con la voce da maschio maturo nella seconda metà del film. Non per questo non va in cerca di una puzzola dell’altro sesso nella stagione degli amori – e non per questo non c’è del tenero tra lui e Bambi, che pure una fidanzata se la trova.

Insomma, come cantavano i Bluvertigo, anche se a uno piacessero i fiori non è detto che debba fare il fiorista. Meglio riformati che terrorizzati da una camicia a fiori – o di immaginarsi fiori alla prima notte di nozze, o di accettare che somigliare a un fiore sia un’opzione lodevole anche sentendosi maschi.

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