Negli anni in cui frequentavo la mia laurea specialistica in linguistica presso La Sapienza Francesco Sabatini, esimio linguista, filologo ed ex presidente dell’Accademia della Crusca, atterrava a Uno mattina con la rubrica Pronto soccorso linguistico, all’interno della quale rispondeva ai più disparati dubbi linguistici sull’italiano («attenzionare si può dire?»).

Questo ha significato, per la mia famiglia e non solo, una associazione perdurata negli anni fra la mia futura figura professionale di linguista e quella di una sorta di eminenza insindacabile preposta a fugare i dubbi sul si dice e non si dice.

Se, ancora oggi, mia madre mi chiama in preda alla curiosità per chiedere la mia opinione su eventuali sfondoni da lei rilevati, molte altre persone della mia cerchia amicale mi chiedono sempre più frequentemente quali siano le mie opinioni in merito alle numerose proposte, sia grafiche sia non, per un italiano più inclusivo secondo una prospettiva di genere.

In virtù del mio essere quasi una linguista, vengo percepita infatti come in possesso di una sorta di bussola interiore che posso tirar fuori alla bisogna per indicare la via più corretta.

Oltre la schwa

I Blur cantavano di «Girls who want boys who like boys to be girls who talk boys like they’re girls». 

Se dovessi condurre un’intervista non settoriale a qualche linguista con messo sul piatto l’argomento “lingua e genere”, non muoverei da “Cosa ne pensi della schwa?” bensì chiederei come ci si sente ad aver fornito gli strumenti fondamentali a una delle più importanti filosofe e studiose di genere del Ventunesimo secolo.

Due tra i testi più noti e importanti di Judith Butler, Bodies that matter e Gender Trouble, muovono proprio da una delle più note elaborazioni teoriche nate in seno alla linguistica attenta al fare cose con le parole, prendendo in prestito il concetto di performatività così come elaborato da John Austin in How to do things with words, per cui, nel momento in cui proferiamo alcuni specifici enunciati stiamo a tutti gli effetti compiendo un’azione (per esempio “ti battezzo”, o “lascio il rolex in eredità a mio nipote”).

Muovendo proprio da una visione che vuole il linguaggio come una forma di agire sociale, Butler evidenzia come le identità di genere siano per l’appunto costruite dal linguaggio (si pensi a un medico che alla nascita dichiara “è una femmina”) ma anche nel linguaggio.

Sia il concetto di performativo, sia la nostra capacità di esseri dotati di agentività, ci permette quindi di costruire specifiche identità di genere collimanti o meno con il nostro sesso biologico anche attraverso l’armamentario linguistico a nostra disposizione.

Come suona l’identità di genere

La materialità dei corpi che contano è infatti sempre legata a doppio filo con la materialità dei corpi che parlano. A partire dalle performance drag, l’utilizzo della voce è infatti un qualcosa di manipolabile per segnalare la propria identità di genere o orientamento sessuale, oltre a tutti gli armamentari semiotici a nostra disposizione, che siano boa piumati o bracciali di pelle da club berlinese.

A tale proposito, un documentario un po’ di nicchia uscito nel 2014 per la regia di David Thorpe, Do I sound gay?, mette a fuoco proprio il ruolo della voce nel veicolare specifiche identità di genere.

Il protagonista, conscio degli stereotipi negativi attivati da alcuni specifici elementi fonetici solitamente associati all’omosessualità maschile (come una certa pronuncia della esse, almeno in inglese) compie un viaggio di logopedista in logopedista per correggere la sua pronuncia gay, fino ad approdare a una pacifica scoperta del suo essersi allineato a specifici modelli linguistici nel momento del suo coming out.

Del resto, proprio attorno a questo c’è un mercato vero e proprio di veri o presunti professionisti che aiutano non solo a superare eventuali difetti di pronuncia, ma anche a creare corrispondenze tra come appariamo fisicamente e come suoniamo agli occhi di chi ascolta.

Per quanto il nostro corpo ci ponga dei limiti fisiologici nel momento in cui emettiamo dei suoni, il nostro essere degli esseri per l’appunto sociali fa sì che possiamo modificare i suoni che emettiamo per svolgere specifici compiti.

Si tratta a tutti gli effetti di pratiche di crossing, ossia modi che permettono ai soggetti parlanti di trasgredire appropriandosi di una varietà di lingua non propria, mimando il modo di parlare di un determinato gruppo o categoria sociale; non sarà un caso che l’etichetta di cross expressing, è proprio costruita come calco a partire dal termine cross dressing.

Voci post-gender e postumane

I modi che abbiamo per superare i nostri limiti vocali e per compiere attraversamenti sono i più disparati; la nostra ibrida umanità può così affidarsi a strumenti come vocoder o modificazioni artificiali della voce per veicolare identità non solo binariamente opposte, ma né maschili né femminili, a partire dai suoni alieni di Cher fino ad approdare al giubbotto acustico elettrificato di Gianna Nannini già citato da Rosi Braidotti.

Nel suo disco del 2015, Oil of Every Pearl’s Un-Insides, l’artista transgender SOPHIE fa uso di tecnologie musicali per veicolare un’identità linguistica non binaria.

Grazie a dei filtri che in postproduzione permettono di modificare i valori frequenziali della voce, SOPHIE riesce così a creare una voce né maschile né femminile, ma che rimanda invece a un corpo plastico e non esclusivamente organico. Un apparato tecnologico che, assieme alla manipolazione visuale, crea un cortocircuito estetico associato a elementi femminili, rosa e luccicanti che però è, al contempo, abitato da corpi realmente ibridi, immateriali e non binari che «possono essere quello che vogliono».

La santa posseduta da un maschio

Non sempre però il crossing è nella lingua di chi parla; altre volte la pratica semiotica è così efficace che le pratiche di crossing si insinuano nelle orecchie di chi ascolta.

Tra il 1956 e il 1972 la frazione di Serradarce, in provincia di Salerno, viene interessata da un continuo flusso di pellegrini che vanno ad ascoltare le prediche della semianalfabeta Giuseppina Gonnella, posseduta dal corpo di suo nipote Alberto, investito da un camion guidato da suo zio all’età di 21 anni.

Del culto, che raggiunse dimensioni all’epoca paragonabili alla non geograficamente distante fortuna di Padre Pio, resta traccia nei due documentari di Luigi di Gianni, Nascita di un culto (1968) e La possessione (1971), e nelle foto scattate da Fernando Scianna.

Ogni anno, per sedici anni, alle 8:34 del mattino, ora della morte del nipote, Giuseppina Gonnella entrava in trance e veniva posseduta dallo spirito del glorioso Alberto. Segno dell’avvenuta possessione era il suo salire su uno sgabello, dal quale dava avvio a una predica totalmente sconnessa e più simile a un grammelot durante la quale parlava senza soluzione di continuità di polveri canine, bestemmiatori, bambini buttati a mare, descrizioni del Purgatorio, santi e madonne incoronate.

Alle orecchie dei fedeli, ma anche degli studiosi interessati al caso, nelle fasi di possessione Giuseppina era in grado di parlare con la voce di Alberto, ossia con la voce di un uomo. Significativamente, né qualsivoglia analisi strumentale né l’impressione ingenua derivata dall’ascolto di nastri e video ha mai confermato questa impressione, tuttora viva fra gli abitanti di Serradarce e zone limitrofe.

La voce di Giuseppina delle prediche corrisponde perfettamente alla voce di Giuseppina che possiamo ascoltare nelle interviste o durante i consulti nella cosiddetta stanza del segreto, e si tratta di una tipica voce femminile di timbro cricchiato.

Evidentemente, la pratica di Giuseppina di vero e proprio crossing fra l’aldiqua e l’aldilà e il suo impossessarsi di uno spazio precipuamente maschile come il pulpito vestendo i panni di un seminarista ucciso sono in grado di creare un cortocircuito che manda in tilt la percezione di chi si ascolta. L’illusione è così grande che anche la voce deve potersi modificare, rafforzando così l’impressione del miracolo che continua ad avvenire.

Identità vocale

Nel corto del 1948 La voce magica di Paperino una scatola di pasticche rosse permetteva a Paperino di ottenere una voce suadente e di incrementare così la sua vendita di spazzole porta a porta.

Di certo non mi interessa proporre metodi convincenti per sedurre l’uditorio. Quando però il dibattito su linguaggio inclusivo e soggettività ci suona troppo polarizzato o non interessante proviamo a porre lo sguardo al di fuori; noteremo che incredibilmente le persone sono già naturalmente in possesso degli strumenti più disparati per assolvere l’urgenza di esprimere le loro identità.

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