Amava dire che la vita è una corsa e una lotta. L’aveva imparato sulla propria pelle. Sul ring, certo, lo spazio dove si era costruito la sua leggenda e aveva trovato il modo di scalare l’olimpo. Ma anche fuori da quel rettangolo di fatica e sudore.

Nino Benvenuti se n’è andato a 87 anni, era uno dei simboli dello sport italiano. Medaglia d’oro dei pesi welter alle Olimpiadi di Roma 1960, campione mondiale dei superwelter tra il 1965 e il 1966 e dei medi dal 1967 al 1970. La lotta, diceva, «c’è nel momento in cui tutto quello che hai raggiunto non ti è più sufficiente, così ti proponi qualcosa di diverso, di più difficile, con un ambiente o con una storia».

La sua storia era cominciata a Isola d'Istria, passata da una bandiera all’altra nella tempesta della Seconda guerra mondiale e finita poi sotto quella jugoslava. Eliano, il fratello, fu rapito e imprigionato dai poliziotti di Tito. Era colpevole di essere italiano. «È tornato sette mesi dopo, un’ombra smagrita, restò in silenzio per giorni. Mia madre si ammalò per l’angoscia. È morta nel ‘56 di crepacuore: aveva 46 anni. Attorno si respirava il terrore delle persecuzioni. Un giorno vidi dalla finestra della cameretta un uomo in divisa sparare alla nostra cagnetta, così, per puro divertimento».

La famiglia fuggì a Trieste dove c’era la pescheria dei nonni. E un altro orizzonte. «Fu uno strappo lacerante, fisico. Così la mia è diventata in un attimo l’Isola che non c’è. Non potevamo più vivere lì dove eravamo nati».

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La famiglia

Benvenuti aveva visto la morte e il male attorno a sé, ma è stato l’amore a segnarlo per sempre. Immaginifico, romantico, omerico, ormai vecchio Nino raccontava della sua vita con la semplicità e la potenza di un aedo. E nelle sue storie c’erano sempre il mare, il vento, la forza e il coraggio, e ovviamente il padre Fernando che tornava a casa dal mercato del pesce e baciava Dora, la mamma. «Io ho avuto una grande fortuna – ha detto – , ho avuto dei genitori giusti. Ecco, l'amore io l'ho conosciuto dai miei genitori».

Fu il padre ad avviarlo al pugilato. Aveva ricavato una palestra nello scantinato montando le corde legate a tre colonne: era un quadrato triangolare. Usava bende elastiche per fasciare le mani. E i guantoni, invece, quelli arriveranno più tardi. «Facevo trenta chilometri in bici per allenarmi all’Accademia pugilistica triestina».

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A ventidue anni trovò l’immortalità. Era il 5 settembre 1960, i Giochi di Roma avrebbero segnato per sempre la sua vita di pugile. Ma nella sua vita c’è sempre stato tanto altro, Benvenuti sapeva guardare il mondo. Un'ora prima della finale contro il russo Radonyak era seduto su una poltrona di vimini nel villaggio olimpico che leggeva Il gattopardo.

E sul comodino della sua stanza c'era anche una bella edizione del Dottor Zivago. Dopo quella vittoria si inserì nel circuito dei professionisti, facendosi allenare da Libero Golinelli e diventando in pochi anni uno dei pugili più vincenti e rispettati al mondo.

La Trilogia con Griffith

Al Madison Square Garden di New York tra il 1967 e il 1968 affrontò tre volte Emile Griffith. È passata alla storia come la Trilogia. Vinse Benvenuti due volte su tre, e diventò un’icona. «Poi diventi un vecchio e ti senti dire: ecco Nino Benvenuti, l'ex campione del mondo. Allora io dico no, io sono un campione olimpico. Un olimpionico. Da olimpionico ho vissuto la mia vita».

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Griffith fu rivale e amico. «Un fratello, Emilio l’ho sempre sentito così». Tanto che quando si ammalò di Alzheimer, Benvenuti organizzò una raccolta fondi per curarlo e lo portò in Italia per farlo visitare. «L’Alzheimer, per noi pugili, è una sorta di malattia professionale. A furia di prendere pugni in testa, ti arriva. Ho fatto quello che ho potuto». Nella carriera di Benvenuti ci sono gli incontri che hanno fatto la storia. E per ascoltare i suoi match nelle notti americane 18 milioni di italiani si incollavano alla radio.

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Ma Benvenuti è stato molto altro. Il dualismo con Sandro Mazzinghi, le amicizie con i divi del cinema, le sconfitte contro Carlos Monzon. «Prima o poi capita a tutti di perdere. Sono contento di aver lasciato il titolo a un grande come Carlos. E poi quelle sconfitte mi hanno fatto capire che c'è un limite oltre il quale un uomo non può e non deve andare». Nel 1971 pensò che il momento di smettere era arrivato. «L’ho fatto serenamente perché capivo che avevo esaurito il percorso e avevo raggiunto, a quel punto, tutto quello che mi ero prefissato».

Il cinema

Aveva fascino e un sorriso inconfondibile, tanto che di lui si accorsero pure i registi di un cinema nuovo o che stava cambiando. Nel 1969, verso il viale del tramonto della sua carriera, l’amico Giuliano Gemma lo volle in un film, un western all’italiana, Vivi o preferibilmente morti.

Benvenuti ci ha sempre scherzato su: «Fare il pugile e al tempo stesso l'attore non è una grande idea. Io accettai per la grande amicizia con Giuliano, ma conoscevo l'ambiente, mi capitava di frequentare Alain Delon e Jean Paul Belmondo».

È diventato fumetto, opere d’arte, idolo. L’America lo ha ammirato e coccolato. Quando sbarcò per il primo incontro con Griffith i giornali scrissero di lui che aveva «la lingua lunga ed è bello da far schifo». E ogni volta che ci tornava sentiva affetto e calore. Una delle ultime nel 2021, anche Sylvester Stallone andò a stringergli la mano. Il ring dà metafore e significati. Il pugile, ha detto ancora Benvenuti, «è uno che cerca se stesso sul ring. La sfida è quella: fai a pugni con un altro da te e guardi in fondo alla tua anima».

Ha avuto gioie e dolori, trionfi e cadute. Pochi anni fa dovette patire il vuoto per la perdita del figlio Stefano, trovato morto in un bosco sull’altopiano del Carso: stava scontando una pena di quattro anni per furto di gioielli. Il rapporto con i figli, l’unico vero rimpianto della sua esistenza di uomo. «Non li vedo, non li sento, non mi vogliono parlare. Non sono stato un buon padre, potrei ancora essere un buon nonno». Voleva che le sue ceneri fossero sparse dallo scoglio di Isola d’Istria, quello «dove ho imparato a nuotare da bambino». Ma non aveva paura di morire: «Sul ring risolvevo i problemi con il mio sinistro, la vita è stata più complicata però ho poco da rimproverarmi».

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